Signora del blues, splendida regina della musica e ribelle che non si è mai arresa. Billie Holiday non è solo una delle voci più belle nella storia del jazz, ma è prima di tutto una donna che non si è mai arresa, che ha lottato, pianto ed è caduta, trovando sempre il modo di rialzarsi. Questa è la sua storia.
C’era una volta Billie Holiday
Il 17 luglio 1959, quando morì, a soli 44 anni, si trovava ammanettata a un letto d’ospedale, dopo l’ennesimo ricovero e l’arresto da parte dell’FBI. In banca solo 70 centesimi e alle spalle un’esistenza segnata da violenze, eccessi, delusioni e una battaglia senza sosta contro la segregazione razziale. Una volta le chiesero perché i grandi del jazz morivano sempre giovani e Billie rispose: «Perché viviamo cento giorni in uno».
D’altronde la vita di questa cantante non si può condensare in poche righe. Un’esistenza che sembra un film, segnata da profonda sofferenza e da grandi successi, ma soprattutto da uno spirito ribelle che portò la Holiday tanto in alto quanto in basso. Quando nacque, nel 1915, la sua vita sembra già segnata dal dramma.
La madre venne ripudiata dalla famiglia e il padre abbandonò entrambe per diventare un musicista. Eleanora, vero nome di Billie, trascorse un’infanzia infelice e a soli quattordici anni si ritrovò a prostituirsi a New York insieme alla madre Sadie.
La svolta arrivò quando John Hammond, celebre produttore, la notò in un night club di Harlem. Difficile non rimanere colpiti dalla voce di Billie, che in pochi mesi raggiunse il successo, incidendo singoli con Benny Goodman e rivaleggiando con Ella Fitzgerald.
La signora del blues
Nel 1938 venne assunta da Artie Shaw e divenne una delle prime cantanti nere a cantare con un’orchestra di bianchi. Accettò di partire in tour nel Sud segnato dalla segregazione razziale: il viaggio si rivelò un vero inferno.
Billie venne insultata e fischiata sul palco, le venne impedito di usare i bagni e venne fatta passare solo dalle cucine. Mortificazioni continue che infransero il suo cuore e il suo ego e che la portarono ad abbandonarsi ai suoi demoni. Fu in quegli anni che la cantante cadde in un vortice nero, quello della dipendenza da eroina.
Ma quelli furono anche gli anni di Strange Fruit, canzone divenuta un simbolo della ribellione e della protesta contro il razzismo. Il brano, infatti, narrava del linciaggio degli americani neri da parte degli americani bianchi: lo “strano frutto” a cui si riferisce il testo sono i corpi delle vittime appese agli alberi nel Sud del Paese.

“Ha uno stile più originale di qualsiasi altra cantante”, scrisse di lei il settimanale Life, ma a quel punto la discesa negli inferi di Billie era già iniziata. Alla dipendenza dalle droghe, che la portò a dilapidare tutto il suo patrimonio, si accompagnò la scelta dell’FBI di perseguitarla, proprio per quanto denunciato cantando Strange Fruit e le esecuzioni sommarie ai danni neri.
L’obiettivo degli agenti era quello screditarla: “I suoi diamanti, i suoi abiti eleganti, le sue Cadillac generavano risentimento”, spiegarono successivamente. E l’arrestarono diverse volte, arrivando ad accanirsi contro di lei, arrivando a metterle a soqquadro la sua stanza d’albergo e crivellando di colpi la sua automobile.
Nel 1947 scattarono le manette per possesso di droga. Due anni dopo un altro arresto. Poi le fu diagnosticata la cirrosi. Nel 1958 il terzo arresto, Billie Holiday viene ammanettata mentre si trova nel letto di un ospedale.
“Mi hanno detto che nessuno canta la parola “fame” e la parola “amore” come le canto io” – aveva raccontato tempo prima – “Forse è perché so cosa han voluto dire queste parole per me, e quanto mi sono costate”.