Squid Game ha sconvolto il mondo con la sua narrazione brutale e magnetica, trasformando innocenti giochi d’infanzia in prove di vita o di morte. Ma dietro la storia di Seong Gi-hun e degli altri disperati concorrenti c’è un’ombra inquietante: quanto di ciò che abbiamo visto su Netflix è pura finzione e quanto si ispira alla realtà?
Con l’uscita della tanto attesa seconda stagione, la domanda diventa ancora più attuale. Tornano i giochi, le tute rosse e soprattutto il sottotesto sociale che ha reso questa serie un fenomeno globale.
Squid Game è una storia vera? Un gioco da bambini, ma non troppo
Chi ha visto Squid Game sa quanto sia destabilizzante l’idea di vedere il “Red Light, Green Light” (la nostra campana o un “1, 2, 3, stella”) trasformarsi in una carneficina. Ma ciò che rende davvero potente la serie è che non si limita alla suspense o alla violenza fine a sé stessa: c’è un sottotesto sociale che grida disperazione. E sì, è proprio qui che la realtà e la finzione iniziano a intrecciarsi.
Il regista Hwang Dong-hyuk ha rivelato di essersi ispirato ai violenti scioperi del 2009 della Ssangyong Motors, in Corea del Sud. Non era un reality show, ma le immagini di quei lavoratori licenziati, arroccati sui tetti della fabbrica e attaccati dalla polizia antisommossa, sembrano provenire da un episodio di Squid Game. Lì, come nella serie, la disperazione economica ha portato uomini e donne a combattere per la sopravvivenza, non con giochi, ma con proteste e scioperi.
E la posta in gioco? Non erano miliardi di won, ma la dignità e il diritto a una vita degna. Una protesta durata 77 giorni, tra manganelli, taser e lacrimogeni, ha lasciato cicatrici profonde su molti. Qualcuno non ce l’ha fatta, e non è difficile immaginare che lo stesso dolore e la stessa impotenza abbiano ispirato i partecipanti fittizi della serie.
E la seconda stagione non fa eccezione: le dinamiche di potere e sfruttamento sono ancora al centro, con nuovi personaggi che incarnano le stesse disuguaglianze. Gi-hun, il protagonista, continua a essere il simbolo di una società che consuma e abbandona.
Quando la finzione diventa specchio della realtà
La magia – o forse la maledizione – di Squid Game è che sembra tutto incredibilmente plausibile. Le lotte dei protagonisti riflettono le dinamiche di potere e sfruttamento che ci circondano. E non è un caso: Hwang Dong-hyuk voleva che il suo lavoro fosse un pugno nello stomaco, una denuncia alle disuguaglianze della società moderna.
E se pensi che l’idea di un’organizzazione segreta che sfrutta persone disperate sia troppo surreale per essere vera, sappi che non lo è del tutto. Recentemente, in Cina, si è diffuso un fenomeno chiamato “sfide d’isolamento”: competizioni che ricordano vagamente Squid Game.
Anche qui, persone indebitate sono attirate dalla promessa di vincite economiche, accettando di sottoporsi a prove psicologiche estenuanti. Non c’è sangue versato, ma le regole sono altrettanto folli, come non poter guardare l’orologio o coprirsi il viso. Un dettaglio inquietante? Le telecamere che sorvegliano ogni movimento, proprio come nella serie.
Il messaggio dietro i giochi
Ma allora, Squid Game Netflix è una storia vera? No, non nel senso letterale. Nessuno ti costringerà a giocare a “Honeycomb” con una pistola puntata alla testa. Eppure, ciò che rende la serie così disturbante è la consapevolezza che le disuguaglianze e la disperazione che alimentano i giochi sono fin troppo reali.
C’è una lezione che Gi-hun e gli altri concorrenti ci insegnano, tra tradimenti e momenti di umanità: in un mondo che misura il valore di una persona con il denaro che possiede, chiunque può essere spinto a fare l’impensabile.
Con la seconda stagione appena uscita, il mondo di Squid Game continua a essere un potente specchio della società moderna. Tornano i giochi, tornano le maschere, ma soprattutto torna il monito: cosa siamo disposti a sacrificare per sopravvivere?