La violenza sulle donne fa male alla salute: l’ISS cerca i “segni” sul DNA

Uno studio ha esaminato campioni di sangue di donne che avevano subito violenza per individuare le "cicatrici" degli abusi a livello genetico

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Eleonora Lorusso

Giornalista, esperta di salute e benessere

Milanese di nascita, ligure di adozione, ha vissuto negli USA. Scrive di salute, benessere e scienza. Nel tempo libero ama correre, nuotare, leggere e viaggiare

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La violenza sulle donne non lascia loro soltanto ferite sul corpo, ma vere cicatrici nell’anima e nella mente. In alcuni casi occorrono anni per cercare di lasciarsi alle spalle un abuso e non sempre è possibile. Le conseguenze possono essere tali da incidere sul sui geni delle donne che hanno subito uno stupro o sono state picchiate. Non si tratta solo di supposizioni, ma dei risultati di uno studio, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) e finanziato dal ministero della Salute.

Lo studio EpiWE: alla ricerca delle tracce di violenza nel DNA

La ricerca, chiamata EpiWE a indicare l’Epigenetica delle donne, è stata condotta raccogliendo ed esaminando campioni di sangue di 100 donne che hanno accettato di partecipare allo studio. Lo scopo è quello di indagare se la violenza influenzi l’attività dei geni e per quanto tempo questo possa avvenire, partendo dall’ipotesi che la violenza possa compromettere la salute psico-fisica delle donne. Una delle evidenze emerse è che oltre la metà delle donne vittime di violenza, a distanza di anni soffre di un disturbo da stress post traumatico (Ptsd) grave: il 27% delle donne con diagnosi di Ptsd e 28.4% con Ptsd complesso. Inoltre 23 donne su 100 arrivano ad avere sintomi di depressione; il 32% è ad alto rischio di subire nuovamente violenza.

Il profilo delle donne analizzate

Quanto al profilo delle donne che hanno aderito allo studio, più della metà ha un livello di istruzione pari o superiore al diploma di maturità e il 34% ha un’occupazione stabile, l’82% è di cittadinanza italiana. Il progetto condotto sul primo campione femminile, però, non si ferma al primo step.

Come è stato condotto lo studio

Come ha spiegato l’Istituto Superiore di Sanità, le informazioni per la ricerca sono state raccolte su 76 vittime di violenza, mentre le restanti 24 del campione sono state utilizzate come gruppo di controllo. A tutte è stato proposto un questionario elettronico innovativo – chiamato EpiWEAT – elaborato dall’ISS in italiano e in altre quattro lingue (inglese, francese, spagnolo, tedesco) allo scopo di poter includere nello studio anche le donne immigrate e i mediatori linguistici.

Una ulteriore fase di studio

Non solo il campione femminile potrà essere ampliato, ma persino esteso ai minori. Grazie a una collaborazione con la regione Puglia, infatti, la ricerca ha ora coinvolto anche ai minori che hanno assistito a violenza, dunque che hanno subito una violenza secondaria. Secondo i primi risultati dell’analisi, anche in questo caso ci sono risvolti psicologici importanti e tali da lasciare una “traccia” in chi ha assistito alla violenza.

Alla ricerca delle “cicatrici” genetiche

Oltre ai primi dati, però, le risposte dei questionari saranno ora incrociate anche con le analisi dei campioni di sangue prelevati, proprio per cercare le ‘cicatrici’ epigenetiche sul Dna, cioè quelle “tracce” molecolari che non cambiano la struttura dei geni, ma ne modificano la funzionalità. Finora il progetto EpiWE ha coinvolto le regioni Lazio, Lombardia, Campania, Puglia e Liguria: in questi territori è possibile l’adesione anche di altre donne, con la richiesta di poter prelevare un campione del loro sangue da analizzare insieme ai questionari.

Chi sono gli aggressori

Sempre dalle ricerche condotte finora è emerso anche l’identikit dell’aggressore: nel 97% dei casi è un uomo, nel 71% è il coniuge o partner. Nel 90% dei casi la violenza, che non sia solo sessuale e fisica, ma anche psicologica ed economica, viene ripetuta nel tempo. “La violenza domestica lascia tracce epigenetiche che modificano l’espressione dei geni, cioè la loro attività, senza alterare la sequenza del Dna”, ha spiegato Simona Gaudi, responsabile del progetto per l’Istituto Superiore di Sanità. Studiare queste modificazioni potrebbe permetterci di predire gli effetti a lungo termine della violenza e sviluppare interventi preventivi personalizzati prima che insorgano patologie croniche”.

Cos’è EpiCHILD

Come spiegato ancora da Gaudi, il progetto EpiWE “ha portato all’elaborazione oltre che di EpiWEAT di un secondo strumento digitale innovativo, EpiCHILD, pensato per i bambini e adolescenti. EpiCHILD è stato somministrato per ora a 26 minori di 7-17 anni che hanno assistito alla violenza in famiglia, arruolati nel territorio pugliese in seguito a una collaborazione con la Regione Puglia e nell’ambito dello studio ESMiVA, Esiti di Salute nei Minori esposti a Violenza Assistita”. Secondo i primi risultati, quasi 8 minori su 10 hanno vissuto come evento traumatico aver assistito a violenze fisiche in famiglia. Anche tra i giovani e giovanissimi, inoltre, sono stati identificati diversi casi di Ptsd e depressione. Il 42,3% del campione ha genitori separati o divorziati, mentre nel 92,3% dei casi l’aggressore è il padre.

L’esigenza di screening

Di fronte a questa fotografia di una realtà spesso dolorosa, è arrivato l’appello di Gaudi: “I risultati confermano l’urgenza di screening sistematici nelle strutture sanitarie e nei servizi sociali, interventi multidisciplinari integrati tra sanità, scuola e servizi sociali, Protocolli di prevenzione personalizzati basati su evidenze scientifiche, monitoraggio nel tempo per valutare l’evoluzione dei sintomi. Lo studio proseguirà con follow-up programmati per monitorare l’evoluzione della sintomatologia della violenza subita, e costruire una base dati per future ricerche sul trauma transgenerazionale”.