Sono giorni che non si parla d’altro. Di quell’angoscia nera che ha visto sprofondare la città di Palermo e l’Italia intera in un impasse senza via d’uscita. Perché quello stupro di gruppo ai danni di una ragazza di soli 19 anni ha infranto definitivamente tutti i sogni che avevamo riposto nella nuova generazione.
È l’orrore che non smette di sconvolgerci, che si nutre di altro orrore e che grazie a quello cresce fino a raggiungere dimensioni gigantesche che fanno paura. È l’atrocità dei carnefici che non mostrano un briciolo di pentimento, che con leggerezza calpestano quello che resta di una ragazza la cui vita è stata frantumata in tanti piccoli pezzi. È il punto di vista di chi crede di poter trasformare le donne in oggetti da utilizzare all’occorrenza e da gettare via quando non servono più, di chi ha la certezza di poter spettacolarizzare senza conseguenze una violenza carnale tacciandola per altro.
Perché “Era ubriaca e la sua amica l’aveva lasciata sola”, perché alla fine si trattava solo di un “Capriccio da soddisfare” e perché, in fondo, la “Carne è carne”. Perché quel “No, basta” esalato con tutto il fiato in gola, non era abbastanza per fermare quello che era un rapporto sessuale non consenziente. Non lo è mai quando si tratta di una donna, quando la vittima è una “Poco di buono”, e non lo è stato neanche quel 7 luglio al Foro Italico quando il branco ha agito senza pietà.
Perché tanto, poi, basta spostare l’attenzione sul carnefice, e sul suo punto di vista, ignorando completamente quello della vittima e del suo dolore. Basta giustificarsi ricorrendo alla non intenzionalità dell’azione o, peggio, a quel dissenso non espressamente dichiarato.
Questa volta, però, tutto questo non può bastare. Perché allo stupro è seguita altra violenza, quella fatta di parole e di messaggi scambiati tra gli aggressori che sono indicibili, impronunciabili, illeggibili ad alta voce persino da chi è estraneo alla vicenda e guarda questa storia come se fosse un film dell’orrore. Perché pensare che un gruppo di giovanissimi, ai quali affideremo un giorno il futuro della nostra società, sia arrivato a tanto ci fa capire che abbiamo fallito. Lo abbiamo fatto tutti.
E autoconvincerci che noi siamo migliori di loro, perché non usiamo quelle parole nel lessico quotidiano e perché non consideriamo le donne animali, come invece ha fatto il branco definendo la vittima una gatta o solo “carne”, non basta. Perché quei messaggi che hanno così sconvolto l’opinione pubblica già provata dalla cronaca, li avrebbe potuti scrivere un nostro amico o un nostro parente. Magari un ex fidanzato insospettabile o, peggio, un figlio. Quei messaggi li avremmo potuti scrivere noi, tutti.
No, noi no. Perché noi siamo diversi, perché noi siamo migliori di quel branco che ha violentato quella ragazza e che ha annientato dalla sua vita. Lo sono i nostri amici, la famiglia e tutte quelle persone delle quali ci circondiamo ogni giorno. E allora perché sui gruppi Telegram che vantano di avere il video dello stupro, e che promettono di mostrarlo in cambio di qualcosa, ci sono migliaia di iscritti? Perché nei scorsi giorni quel filmato girato dal conoscente della vittima durante la violenza è diventato un pezzo ricercato?
Ma soprattutto, chi sono quelle persone? È questo che dovremmo domandarci mentre tutti si chiedono: “Come è potuto accadere”. Perché il problema, è evidente, non riguarda solo i 7 stupratori, ma tutta la nostra società. La nostra umanità. Chi siamo diventati?