È una storia triste, quella che arriva dalla Danimarca, quella che fa sprofondare nell’ombra tutti i passi compiuti, le rivendicazioni dei diritti e delle uguaglianze, le lotte per la libertà di scegliere. Di essere donne. Eppure è doveroso parlarne, farlo adesso anche a distanza di mezzo secolo, affinché gli errori del passato servano da monito a noi e alle future generazioni.
Per scoprire quello che sta accadendo oggi nel Paese scandinavo, una rivolta da parte delle donne Inuit, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo e tornare ai primi anni ’70 quando, una misura del governo messa in atto per controllare le nascite, “sterilizzò” i membri femminili della popolazione indigena della Groenlandia senza il loro consenso.
Tra il 1666 e il 1970 migliaia di donne, per lo più minorenni, furono sottoposte all’impianto di spirali contraccettive contro il loro volere. E sono proprio quelle donne, oggi, a chiedere giustizia per quella vicenda che drammaticamente assume tutti i tratti di una violenza etnica e femminile.
La sterilizzazione delle donne Inuit
4500 donne Inuit, alcune di età inferiore ai 12 anni, hanno subito una violenza. Sono diventate le vittime inconsapevoli di una misura messa in atto dal governo danese per il controllo delle nascite in Groenlandia. Tutte loro sono state sottoposte a una pratica di sterilizzazione tramite l’impianto di spirali contraccettive, ovviamente senza il loro consenso.
La vicenda, emersa qualche anno fa, quando la psicologa e attivista Naja Lyberth ha raccontato la violenza subita quando era ancora un’adolescente. Durante una visita medica nella scuola media che frequentava, alla ragazza era stata impiantata una spirale contraccettiva. “I nostri avvocati sono assolutamente sicuri che i nostri diritti umani e la legge siano stati violati”, ha raccontato la donna una volta che la verità è emersa.
A fare da eco a quel dolore che non è stato spazzato via dagli anni trascorsi anche altre donne, 67 per l’esattezza, che chiedono giustizia per quello che il governo ha fatto. Le ripercussioni di quella manovra, infatti, sono state terribili, sia mentalmente che fisicamente, e hanno avuto un impatto non indifferenti sulle vittime.
Naja Lyberth è riuscita ad avere un figlio, non con poche difficoltà, mentre molte altre donne Inuit hanno dovuto rinunciare a diventare mamme. Le conseguenze dell’impianto, infatti, hanno provocato dolori, emorragie interne e altre infezioni più o meno gravi. Tutto questo senza il consenso delle parti interessate.
La richiesta di giustizia delle donne Inuit
Una volta che i riflettori si sono accesi sulla drammatica vicenda, il Governo autonomo della Groenlandia e quello della Danimarca hanno aperto un’indagine per far luce sui fatti avvenuti 50 anni fa, con la promessa di arrivare a una conclusione entro il 2025. Ma è un tempo, questo, che le donne Inuit non vogliono aspettare, non possono accettare. “Stiamo invecchiando” – ha dichiarato Naja Lyberth all’AFP dopo la notizia dell’apertura dell’inchiesta- “Le donne più anziane a cui è stato inserito il dispositivo di contraccezione si avvicinano agli 80 anni. Vogliamo agire adesso”.
Naja Lyberth, che oggi ha 60 anni ed è stata inserita nella lista delle donne più influenti dalla BBC, si è fatta portavoce di tutte le donne Inuit che hanno subito il suo stesso destino. 67 di loro, pur consapevoli che quello che gli è stato tolto nessuno glielo ridarà indietro mai più, hanno chiesto un risarcimento allo stato danese di 40.000 euro a persona.
Al momento il governo non si è ancora esposto sulla vicenda. Lo ha fatto, invece, Sophie Løhde, ministro danese della Sanità e degli Interni. “È una questione profondamente tragica e le storie di queste donne mi sono entrate dentro” – ha dichiarato – “È un’obbligo indagare a fondo sulla questione, motivo per cui un gruppo di ricerca sta attualmente conducendo un’indagine indipendente e imparziale”.