Roberta Bruzzone: “Lo stereotipo di genere trasforma anche le donne”

Nel libro "Favole da incubo", Roberta Bruzzone ci spiega che la violenza sulle donne si può fermare solo se ci liberiamo degli stereotipi di genere

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Federica Cislaghi

Royal e Lifestyle Specialist

Dopo il dottorato in filosofia, decide di fare della scrittura una professione. Si specializza così nel raccontare la cronaca rosa, i vizi e le virtù dei Reali, i segreti del mondo dello spettacolo e della televisione.

Roberta Bruzzone, una delle più note criminologhe e psicologhe forensi d’Italia, ha scritto a quattro mani con Emanuela Valente, il libro Favole da incubo, dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora, edito da DeAgostini.

Un libro per combattere alla radice la violenza sulle donne. Le due autrici analizzano i principali preconcetti culturali e sociali che hanno operato in queste storie inconcepibili, eppure reali. Stereotipi, pregiudizi e tabù a cui hanno obbedito un po’ tutti: le vittime, gli assassini, l’opinione pubblica e perfino i media che ne hanno parlato. Il quadro che ne emerge non è consolatorio: le idee sessiste sono ancora molto radicate, in ognuno di noi, senza distinzioni di condizione economica e culturale.

Roberta Bruzzone ci racconta da dove nasce la discriminazione e la violenza sulle donne, perché sono così radicati e soprattutto perché sono così difficili da estirpare, individuando la via per cambiare nel profondo strutture mentali, modelli educativi e culturali che relegano la donna in una posizione inferiore rispetto agli uomini.

Il suo ultimo libro, scritto con Emanuela Valente, s’intitola Favole da incubo: perché avete scelto questo ossimoro per raccontare storie di femminicidio?
Il titolo riassume l’evoluzione e l’epilogo delle storie che raccontiamo nel libro, perché nascono sostanzialmente tutte come favole con dei futuri assassini che all’inizio sembrano l’incarnazione del principe azzurro che ricoprono la futura vittima, nella fase in cui la devono agganciare, con attenzioni positive, complimenti e gratificazioni. Ma giorno dopo giorno, la favola si sgretola e lascia spazio all’incubo che poi scivola verso l’epilogo finale, purtroppo il più tragico possibile, quello dell’omicidio. Quindi le storie che raccontiamo nascono come favole e finiscono come incubi. Il titolo rispecchia perfettamente le traiettorie di queste storie.

I casi che prendete in considerazione nel libro presentano dei punti in comune?
Abbiamo scelto di concentrarci sui 10 principali stereotipi di genere che ancora oggi affliggono dal punto di vista culturale i principali modelli educativi che vengono seguiti dalle famiglie italiane. Io li definisco i peggiori nemici delle donne. Nelle storie che raccontiamo, questi stereotipi compaiono sempre, magari miscelati in maniera diversa, ma sono sempre presenti. Quindi abbiamo deciso di prendere in considerazione quei casi che ci consentano di viaggiare all’interno di tali stereotipi per poterli scardinare, mostrando quanto siano stati influenti nel determinare le scelte non solo delle vittime e dei loro carnefici, ma anche delle famiglie di questi due “protagonisti”.

La donna quindi è ancora inconsapevole di quei 10 stereotipi di cui parlate?
Non è soltanto inconsapevole, quello sarebbe già un buon punto di partenza. Purtroppo, invece, a volte le donne sono più maschiliste degli uomini. Nelle indagini più recenti, scopriamo che le donne sono quelle più attaccate agli stereotipi di genere. Questo è l’aspetto che a me e a Emanuela Valente ha maggiormente preoccupato. Da lì l’idea di scrivere un libro per raccontare questi 10 stereotipi, mostrando come effettivamente intervengono nelle storie che poi arrivano all’epilogo peggiore. Ma in realtà assomigliano a tantissime altre storie che non finiscono con un omicidio, ma che comunque nella quotidianità sono fortemente influenzate da questo genere di armamento.

Perché è importante parlare di femminicidio?
È importante parlarne, ma secondo me bisogna cominciare a farlo in maniera diversa. Da qui la scelta di scrivere questo libro che adotta una narrazione differente, non la descrizione del caso in sé e per sé volto a suscitare sgomento nella collettività, ma il caso come testimonianza di quanto ancora dobbiamo trasformare i nostri modelli educativi e gli stereotipi di genere.

Questi stereotipi sono così radicati in Italia anche perché la legislazione è arrivata tardi?
Fino al 1975 fondamentalmente nel vecchio diritto coniugale, il marito aveva il compito di educare la moglie e la moglie non poteva sottrarsi alle richieste personali del proprio coniuge. Nel 1981 viene abrogata una fattispecie di reato terribile come il delitto d’onore. Parliamo quindi di un’epoca, molto vicina a noi. Per questo dal punto di vista culturale siamo rimasti lì. Paradossalmente il nostro sistema giudiziario ha fatto passi da gigante, ma l’ambiente culturale è rimasto indietro. E tutto ruota intorno al principale stereotipo di genere, ossia che gli uomini sono superiori alle donne. Questo è il pregiudizio “madre” da cui derivano tutti gli altri, perché da ciò discendono tutte quelle idee per cui il lavoro è più importante per gli uomini che per le donne, le donne sono fatte per restare a casa ad accudire i figli, le donne non devono studiare, non sono portate per le scienze ecc. Tutti aspetti che raccontiamo nel libro e che sono appunto riconducibili allo stereotipo che l’uomo è superiore alla donna.

È questo lo stereotipo che porta l’uomo a trasformarsi in un mostro che uccide la donna?
In realtà trasforma anche le donne. Alla fine della favola rimangono in storie sbilanciate e malevole perché sono convinte che quello sia il modo di stare in relazione con un uomo. Quindi non c’è soltanto un problema con gli uomini ma anche con le donne che si convincono, perché sono state progettate a livello culturale, che quando avranno una relazione sarà comunque di disparità col proprio compagno. Questo è il problema principale.

Come possiamo aiutare le donne a cambiare mentalità?
In estrema sintesi, facendo comprendere loro che quello che in qualche modo sono state educate a rispettare come sistema indiscutibile, in realtà è assolutamente discutibile, mostrando loro che c’è un altro modo di stare in relazione fondato su pari opportunità e rispetto, pari potere e importanza. Non è scritto da nessuna parte che una donna per stare in relazione debba sottomettersi e che debba stare a casa a badare ai figli perché in fondo in fondo è quella che è più portata e quindi deve rinunciare alle sue opportunità di lavoro.

Una donna che è vittima di un pregiudizio, che è discriminata, cosa deve fare per “salvarsi”?
Molto probabilmente neanche lo sa di essere vittima di un pregiudizio. Io ogni tanto faccio degli esperimenti sui miei profili social dove affronto questi stereotipi. Recentemente ho postato una foto di giocattoli dedicati alle bambine per la pulizia della casa, bollandoli come stereotipi di genere “piccole badanti crescono”. Posso assicurare che le più inferocite e accanite contro il mio post, sono state le madri, dunque donne perché dal loro punto di vista è normale regalare quel tipo di giocattoli alle bambine e non ai bambini. Pochissimi follower, uomini e donne, hanno capito il senso di quel post. La maggioranza si è schierata contro perché si è sentita messa in discussione sui ruoli di genere. Quindi la maggior parte delle donne che sono vittime di quegli stereotipi non se ne rende conto, perché dentro quegli stereotipi è cresciuta.

Ritiene che abbiamo fatto passi in dietro rispetto a quella generazione di donne che tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si è battuta per la parità di genere?
Io ritengo che abbiamo fatto moltissimi passi indietro. Io arrivo da una generazione in cui questi contenuti erano stati digeriti ed elaborati, ma a un certo punto sono scomparsi dallo scenario culturale, sostituiti da modelli di femminilità assolutamente discutibili, improntati alla badante o all’oggetto sessuale. Mentre la donna autonoma, la donna in carriera, la donna che vuole occupare un ruolo in società si è persa. Solo adesso stiamo assistendo all’emersione timida di modelli di questo tipo, ma sono quelli più attaccati perché stanno fuori dallo stereotipo.

Però adesso molte donne hanno avuto il coraggio di parlare della violenza subita
La violenza subita è la conseguenza, non l’origine del problema. Solo se cambiamo i modelli educativi e ragioniamo su nuovi modelli di genere, la violenza finirà. Molto spesso la violenza scatta quando una donna decide di lasciare l’uomo e questo perché la fine di una relazione viene vista dall’uomo come una sconfitta personale. Si sente umiliato dalla donna, perché è stato educato a pensarsi superiore a lei e quindi reagisce con la violenza.

Quindi è una questione di educazione?
È una questione di stereotipi culturali da cui i modelli educativi attingono.