Come si fa a spiegare l’amore che si nutre per i propri figli? Possiamo raccontarlo a parole, certo, ma neanche i testi più voluminosi riuscirebbero a restituire in qualche modo quel sentimento immenso e incondizionato che lega i genitori ai figli. E dove non arrivano le parole, lo sappiamo, ci pensano i fatti. Ci pensano la presenza e l’impegno, a volte il sacrificio, la premura, l’attenzione e tutti quei gesti che, ogni giorno e a tutte le ore, sono rivolte proprio a loro, ai figli.
Marco, però, quei gesti non può più rivolgerli a suo figlio, perché Giuseppe non c’è più, almeno non nella forma che conosciamo. Al suo posto c’è una terribile assenza riempita, anno dopo anno, dai ricordi, da un nome e da una storia che tutti adesso conosciamo. Da un libro che prende il nome di “Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli”.
La storia è quella di Giuseppe e Noemi, due nomi che in realtà fanno riferimento alla stessa persona. A un ragazzo tormentato, alle prese con i dubbi di un’identità di genere ancora non definita da una parte e con un auto isolamento letale dall’altra, che alla fine sceglie di rinunciare a vivere.
Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli
Sono passati anni da quella notte di marzo, eppure un dolore così grande non si può dimenticare. “Ho 64 anni” – mi ha confessato Marco prima della nostra intervista – “Eppure la perdita di Giuseppe, in quel modo, è il dolore più grande che io abbia mai vissuto. Non si può cancellare”.
Inizia così il racconto di Marco Termenana, il padre di Giuseppe. Il suo è uno pseudonimo, derivato dal nome di battesimo unito all’anagramma del cognome, usato per motivi di privacy.
Suo figlio non c’è più. Nel 2014, a soli 21 anni, ha scelto di rinunciare alla vita, lanciandosi nel vuoto dalla finestra della camera dell’ottavo piano di quell’appartamento in cui viveva con la famiglia. Il lascito è una lettera, pubblicata anche nel libro, dove Giuseppe ammette di odiare il suo lato maschile, di sentirsi femmina. Un testo in cui il ragazzo dice ai genitori che non è colpa loro. “E allora le colpe dove stanno? Di chi è la colpa?” Si è chiesto Marco ogni giorno e tutti i giorni da quel maledetto marzo.
Per provare a trovare risposte a quelle domande che lo tormentano, ha provato a ricostruire a ritroso la storia del figlio prima di quella notte. Ha percorso l’isolamento mortale che lo ha investito, la transessualità mai raccontata, il mancato dialogo nonostante la ricerca costante e continua da parte dei genitori di crearne uno.
“Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli“ è il libro di Marco, è l’eredità inconsapevole di Giuseppe. È il tentativo di un genitore di compensare il vuoto, di tenere in vita il proprio figlio e di onorare la sua memoria. Ma è anche un monito e un invito per i genitori e per i ragazzi, per riflettere sulle cause del disagio giovanile, per parlare, e farlo ancora, di ogni problema senza aver paura di chiedere aiuto.
Intervista a Marco Termenana
Pagina dopo pagina, si compone la storia di un hikikomori (isolamento mortale) che sfocerà in un transessualismo mancato, di fronte al quale il padre e la madre, benché costantemente presenti e dediti alla famiglia, sono disarmati e non sanno come comportarsi. Le cronache si alternano ai sensi di colpa e alle emozioni dell’autore, sempre spontaneo e diretto, che ha difficoltà a capire e a dire dove ha sbagliato con questo figlio. Le colonne portanti del romanzo sono l’identità di genere e il disagio giovanile che porta all’autodistruzione. (Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli).
Come è nata l’esigenza di raccontare questo dramma?
Direi che ho attivato un meccanismo di autocompensazione, necessario per non impazzire. A un mese esatto dalla morte di Giuseppe ho scritto un pensiero per lui da leggere durante la messa di suffragio. Ecco scrivendo ho avuto come la sensazione che il dolore fosse anestetizzato. Non stava scomparendo, né tanto meno la ferita si stava risanando, ma sembrava far male un po’ di meno. Diciamo che quel dolore, così forte e violento, sembrava meno spaventoso quando scrivevo. Così dopo pagine, ricordi, pensieri e domande senza risposta è nato “Mio figlio. L’amore che non ho fatto in tempo a dirgli”.
Parla spesso, nel libro, di “sensi di colpa”. I sensi di colpa per non aver capito prima?
Nella lettera Giuseppe ha scritto espressamente che la colpa non era la nostra. Ma allora, se non c’erano colpe, perché è successo? Io e mia moglie ci siamo impegnati tantissimo con lui, per provare a comprenderlo, per aprire un dialogo. Ma lui parlava appena, aveva un mondo dentro che noi non conoscevamo. Si faceva chiamare Noemi e odiava la sua parte maschile. Lo ha scritto nella lettera, ce lo ha fatto capire qualche anno prima, quando aveva 16 anni, ma poi si chiudeva in se stesso. Potevo fare di più? Mi chiedo dove ho sbagliato con lui. Ma la risposta ancora non riesco a trovarla.
Quindi lei non sapeva della transessualità?
Ci aveva detto qualcosa, ma sempre in maniera molto criptica ed enigmatica. È stato questo che l’ha portato a compiere il gesto estremo, non la transessualità, ma l’isolamento che poi è diventato mortale.
La sindrome di Hikikomori?
Sì, esatto. La prima volta che ho sentito questo termine è stato quando, raccontando la storia di Giuseppe, una persona mi ha detto “Avevi un hikikomori in casa e non lo sapevi”. Io sapevo che mio figlio era molto introverso, a volte anche timoroso, che non si relazionava facilmente se non con poche, pochissime persone. Rifiutava il contatto diretto con il mondo esterno. Ma mai avrei potuto pensare che questo mal di vivere lo avrebbe portato a compiere un gesto così.
“Scrivendo questo libro ho ritrovato mio figlio”. Lo ha detto lei vero?
Sì, il mio unico obiettivo era quello di ritrovare mio figlio, forse come non sono riuscito a farlo quando era in vita. Il dolore resta e non andrà via mai, perché perdere un figlio in quel modo è un’esperienza violenta che ti fa perdere ogni equilibrio. Però, se tutto quello che è successo oggi, può diventare una testimonianza volta a sensibilizzare sulle tematiche del disagio giovanile, io sono contento. Se so che il mio libro, e tutto quello che è successo, possono aiutare anche solo una persona in tutto il Paese, io sento di avere dato in qualche modo un senso a tutto.
È spesso a contatto con i giovanissimi partecipando attivamente a incontri per sensibilizzare l’omofobia e la transfobia. Com’è il confronto con i ragazzi?
L’incontro più recente c’è stato proprio mercoledì 17 maggio, con gli studenti dell’IISS Laporta Falcone Borsellino di Galatina, in occasione della Giornata Internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Come sempre, e come in molte altre occasioni, i ragazzi sono stati molto partecipativi. Si aprono spesso con me, hanno voglia di raccontarsi e io dico sempre loro: “Parlate ragazzi, di ogni problema, di ogni disagio. Fatelo con i vostri genitori, con gli insegnanti, con gli amici. Ma fatelo”.
Sono molto curiosi anche rispetto a Giuseppe. Mi chiedono come si vestiva, cosa gli piaceva fare, che rapporti aveva con i fratelli. Insomma, vogliono entrare nella loro vita
E questo le fa piacere?
Sì molto. Mi sembra come se questa voglia di entrare nella sua vita compensasse in qualche modo quel drammatico vuoto che Giuseppe si era costruito intorno. E parlare con loro, di mio figlio, mi aiuta a tenerlo in vita ancora.