Dai permessi all’omicidio: De Maria e l’illusione del cambiamento

De Maria nel 2016 uccide una donna, nel 2024 un’altra. Due vite spezzate da chi aveva già scelto la violenza. Ma per lui c’erano permessi

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Pubblicato: 13 Maggio 2025 18:26

Il 9 maggio 2025 Emanuele De Maria, 47 anni, accoltella un collega e uccide una donna, collega anche lei, poi scompare. Dopo quarantotto ore di fuga, la sua corsa finisce nel modo più drammatico: si getta nel vuoto dalle terrazze del Duomo di Milano. In tasca ha una foto e una ciocca di capelli della donna che ha appena ammazzato. Ma la storia di De Maria inizia ben prima.

Nel 2016, a Castel Volturno, in provincia di Caserta, uccide con diverse coltellate, sgozzandola, una ragazza marocchina di 23 anni, Hajar Fathafi, De Maria sparisce nel nulla per due anni, fino al 2018, quando viene finalmente catturato. Nel 2019 arriva la condanna: 14 anni per omicidio volontario. Una pena che, come da prassi, parte dalla data del reato, e non da quella dell’arresto. I conti, quindi, portano a un “fine pena” previsto per il 2031, ma De Maria, grazie alla buona condotta e al cosiddetto “percorso di reinserimento”, comincia presto ad affacciarsi alla vita fuori dal carcere. Studia, lavora, si mostra educato e collaborativo.

Il carcere è quello di Bollate, noto per i programmi di rieducazione, firma un contratto a tempo determinato come receptionist presso l’hotel Berna il 29 novembre 2023. Un anno dopo, il 12 novembre 2024, viene informato dai responsabili della catena alberghiera che sarebbe stato assunto a tempo indeterminato. Lavora dal lunedì alla domenica per un massimo di 40 ore settimanali. A seconda del turno, ha la possibilità di uscire dal carcere e rientrare un’ora e mezza prima o dopo il suo orario di lavoro. Ha anche il permesso di portare con sé un cellulare e seguire un percorso prestabilito per arrivare in hotel: parte a piedi o in autobus fino a Rho Fiera, poi prende la M1 fino a Cadorna e, da lì, cambia sulla M2 per raggiungere la Stazione Centrale. Rilascia interviste a emittenti italiane e tedesche. Sorride. Dice che il lavoro lo entusiasma, che il futuro lo attende.

Poi tutto crolla, intraprende (almeno così sembra) una relazione con Chamila Wijesuriya, una donna di origini srilankesi, che lavora al bar dello stesso albergo; lei, sposata, vuole troncare, forse  l’altro collega l’ha messa in guardia, lo scopriremo una volta che uscirà dall’ospedale, visto che De Maria lo aggredisce brutalmente, il tutto ripreso dalle telecamere di videosorveglianza,  con un coltello. Poi uccide lei, colpendola alla gola e ai polsi, in modo lucido e feroce, secondo quanto riferito dalla Procura, nasconde il corpo tra i cespugli di un parco vicino. Scappa, si toglie la vita due giorni dopo. Un’altra vita spezzata. Un’altra famiglia distrutta. Ancora.

Il suicidio di De Maria, avvenuto dopo l’omicidio della collega, non ha posto fine alla riflessione sul caso. La domanda che tutti si pongono è come un individuo con un passato così oscuro, con una condanna per un omicidio così brutale, possa essere stato messo in una posizione che gli permettesse di agire senza controllo. Come è stato possibile che un omicida avesse avuto la possibilità di tornare a lavorare e a mettersi in contatto con le donne? Come ha fatto ad ingannare gli psichiatri (o gli psicologi), le persone preposte a redigere una valutazione per il reinserimento nella società?

Le leggi italiane, che si riflettono in un sistema penitenziario che cerca di bilanciare punizione e riabilitazione, non sono mai state sufficienti a tenere sotto controllo individui che hanno dimostrato di non essere recuperabili. De Maria, come tanti altri omicidi condannati, non è mai cambiato: l’omicidio, per lui, era una scelta deliberata, non un errore.

Non esistono giustificazioni per coloro che uccidono con tale freddezza, eppure la sua richiesta di permessi per lavorare è stata accolta. Il fatto che l’omicida avesse ottenuto dei permessi è l’esempio lampante di un sistema che troppo spesso si fida della “riabilitazione” senza considerare la realtà dei fatti: non tutti i detenuti cambiano, e non tutti meritano una seconda possibilità. Ecco perché la certezza della pena è un valore fondamentale. Non si può accettare che individui come AJR abbiano l’opportunità di tornare in mezzo alla società, a contatto con la gente, senza considerare che il loro passato non può essere cancellato.

La giustizia non è solo una questione di punizione, ma di prevenzione. Se un assassino non mostra segni di pentimento, non può essere messo in situazioni che gli permettano di far male di nuovo. Questo non è un errore da parte della giustizia, ma una vera e propria negligenza che potrebbe essere stata evitata. Dobbiamo chiederci se sia giusto permettere a un uomo che ha ucciso, sgozzandola, una donna, di lavorare con altre donne. La legge dovrebbe essere più severa con chi ha commesso omicidi volontari, con chi ha scelto deliberatamente di spezzare una vita. La certezza della pena è la base su cui dobbiamo costruire una società giusta, che protegga chi è vulnerabile e punisca chi ha scelto di violare la vita di un altro. L’omicidio non è mai una fatalità. È una scelta, un atto premeditato che non può essere giustificato. Quando si concede una seconda possibilità a chi non l’ha meritata, si rischia di mettere in pericolo la vita di altri. La giustizia non può essere cieca, né indulgente. Ogni vittima, ogni caso, ogni omicidio, ci ricorda che non tutte le persone cambiano. E che la certezza della pena è l’unica vera protezione per la nostra società.

Nel 2016, Emanuele De Maria ha ucciso una donna. E l’ha fatto a coltellate. Nessuno inciampa in un omicidio volontario, nessuno affonda un coltello in un corpo per sbaglio, lo scegli, lo decidi. E lo compi. Quattordici anni. Questo gli è costato. Quattordici anni, ma nemmeno tutti. Perché nel 2023 è già fuori. Esce la mattina, lavora, rientra la sera. Intervistato in tv, elogiato da chi lo ha seguito nel suo “percorso esemplare”. Dicevano che fosse cambiato, che si fosse guadagnato una possibilità. E invece no. Non era cambiato. Era solo in attesa. Perché il mostro, quando è tale, non smette di esserlo se non vuole. E lui non voleva. Un’altra donna morta. Un altro coltello. Un altro parco, un’altra gola tagliata. Un’altra vita scomparsa.

E noi qui, sempre allo stesso punto, sempre a chiederci perché, sempre a dire: “Bisogna capire cos’è successo”. No. Bisogna ammettere che certe persone non cambiano, che certi reati non si reintegrano, che l’omicidio volontario è una porta che si chiude per sempre. O almeno, dovrebbe esserlo. Perché noi ci giriamo dall’altra parte solo quando il morto è chi non conosciamo, quando è “solo” una prostituta, quando è “solo” un tossicodipendente, quando è solo un numero. Poi, però, il morto diventa il tuo vicino, il tuo collega, la tua sorella. E allora ti svegli. Ma è tardi. Nel frattempo, chi ha firmato quei permessi? Chi ha deciso che meritava di tornare fuori? Chi ha letto i rapporti, le pagelle carcerarie, e ha detto “Ok, ci fidiamo”? Perché se io sbaglio nel mio lavoro, mi licenziano. Ma qui, qui c’è in gioco la vita delle persone, e non ci si può permettere di sbagliare, non due volte. Non così. De Maria si è tolto la vita, lasciando a terra i suoi documenti e un’altra donna morta. E noi siamo qui, a guardare l’ennesimo epilogo annunciato, a fare i conti con la nostra cecità, a chiederci quando smetteremo di chiamarla giustizia, questa cosa che somiglia sempre più a una beffa.