Amor, ch’a nullo amato amar perdona. Ho cominciato a cantarlo da bambina, perché tratto da una delle canzoni più belle di Antonello Venditti. Ho continuato a farlo con la “Serenata rap” di Jovanotti. Ma è stato soltanto con il Liceo e l’Università che ne ho capito origine e importanza. La bellezza di questi versi, la capacità di racchiudere in sé l’intensità e ineluttabilità dell’amore. Che non risparmia nessuno, e può portare a conseguenze tragiche.
Come nel caso di Paolo e Francesca, i dannati più famosi e anche in qualche modo “graziati” da Dante. Che non a caso sviene al loro racconto, combattuto tra la condanna e la comprensione: Pietà mi giunse e fui quasi smarrito.
Paolo e Francesca sono stati messi dal Sommo Poeta tra i lussuriosi del quinto canto dell’Inferno, perché adulteri, cognati amanti che pagarono con la vita la loro passione. E poco importa che Francesca fu costretta contro la sua volontà e con l’inganno, a sposare quel rozzo del marito, convinta invece di andare in sposa al di lui fratello, il bellissimo Paolo verso il quale era stato amore a prima vista. Gli amanti adulteri, nel 1200 come oggi, andavano puniti. E in modo crudele ed esemplare.
Ma l’amore “ha leggi che la ragione non conosce”, come scrisse qualche secolo dopo un altro grande, Pascal. E quando scoppia, non guarda in faccia nessuno. E all’amore, proprio come alla morte, alcun uomo o donna può sfuggire. Lo ha raccontato meravigliosamente bene Dante con Paolo e Francesca, amanti partoriti e uccisi, al tempo stesso, dalla loro passione irrazionale e incontrollabile. Ahimè, quanti dolci pensieri e quanto profondo desiderio condusse loro alla morte!
Ancora oggi, quei versi, e quei personaggi toccano il cuore di chiunque: chi in loro si riconosce e chi rimane scioccato dalla consapevolezza che amore e morte possano essere, spesso, tanto legati fra loro. E in quei sette versi è racchiusa la bellezza e la tragedia della vita. Ieri come oggi.