Aveva 15 anni, un sorriso contagioso e sincero, un’ironia coinvolgente e tanto, tanto amore da donare. Così era Marta come la descrive chi l’ha conosciuta: spontanea, sincera, un’anima speciale. Così lo dimostra, ancora una volta, attraverso le parole affidate a una lettera, letta dal suo papà, Giovanni, durante il funerale, svoltosi sabato 23 dicembre. Speravamo in un finale diverso, cara Marta, ma una cosa è certa: le tue parole ci accompagneranno con la loro grinta, consci che la vita è breve, ma che tu hai saputo farne tesoro anche nel poco tempo concessoti.
La lettera di Marta
Ciao, sono Marta.
Dall’inizio di questa notte interminabile, il 10 novembre, io e papà abbiamo passato tanto tempo assieme. Abbiamo respirato vicini, tenendoci per mano, e mi ha accarezzato dolcemente, per un tempo infinito. In questo tempo abbiamo trovato un modo tutto nostro per comunicare, non so se sia originale o no, ma non importa, e lui mi ha prestato i suoi occhi, le sue mani e il suo cuore per mettere su carta queste parole. Ormai lo sapete, le cose non sono andate come speravamo.
Sfortuna. No, sfiga.
Tanta. Tantissima.
Io sono una tipa combattiva, che ha sempre mostrato il suo carattere, soprattutto da piccola, quando senza troppi problemi dici tutto ciò che ti passa per la testa, ma il nemico che mi sono trovata a fronteggiare era troppo forte. Se solo non ci fosse stata l’emorragia gli avrei dato filo da torcere, al bastardo, perché ragazzi, i tumori fanno paura ma si riescono a vincere, ma così…
A quindici anni si è forti, combattivi, e io ci ho provato, Dio solo sa quanto fortemente io e i miei medici ci abbiamo provato, ma è andata così lo stesso. I miei dottori hanno spiegato a mamma e papà che il mio tumore è raro, ma raro significa solo una cosa, che a qualcuno viene. Il mio corpo di adolescente era così ansioso di crescere che si è fatto prendere la mano; ha pensato bene di costruire qualcosa di totalmente insensato, inutile e folle, una cosa con un nome orrendo, che si è nascosta nel punto più prezioso del mio cervello, e l’emorragia che ha provocato ha danneggiato i talami, una cosa che si chiama con una parola antica, che Omero usava per indicare il posto più segreto della casa, la camera nuziale, il talamo. Il tempo passato in ospedale è stato strano. Ho vissuto in una specie di bolla, in cui spazio e tempo sono diversi da quelli che sperimentiamo ogni giorno, nella vita normale. Sapete, nella bolla tutto è ovattato, è in po’ come l’attimo in cui ti abbandoni al sonno, quando ti sembra di cadere. Non c’è luce, ma non c’è neanche buio, c’è una roba come quando stringi forte le palpebre, le stropicci, e si formano tanti puntini colorati scintillanti. Se da bambini non l’avete mai fatto provateci stasera. Ma nella bolla si sentono il calore e il profumo delle persone che ti vogliono bene e ti sono vicine. Ognuna di loro risuona in un modo diverso. Il calore più forte era quello di Niccolò, poi c’erano mamma e papà, e poi tutti quelli che mi sono stati vicini, anche da lontano. Vi ho sentiti tutti. Vi continuo a sentire tutti.
Qui abbiamo un sistema di comunicazione straordinario, niente a che vedere con le fesserie tecnologiche che piacciono tanto a papà, e in più non dobbiamo neanche spegnere e riaccendere quando qualcosa non funziona….beh, più o meno. Non posso ringraziarvi personalmente tutti, siete troppi. La persona che ha fatto conoscere mamma e papà e a cui ci lega ora, purtroppo, una cosa in più, canterebbe che quello che avete fatto e state facendo è “la somma di piccole cose”, che tutte insieme fanno qualcosa di grande e meraviglioso. Mi avete pensata intensamente, anzitutto. E poi avete raccolto e sostenuto i miei genitori e mio fratello in tanti modi; li avete abbracciati, scaldati, siete stati in silenzio – che bello quando si sta in silenzio – li avete obbligati a mangiare, gli avete prestato l’auto quando il giorno del mio compleanno la loro si è rotta, offerto passaggi e mille altre cose. Grazie. È una parola che abbiamo riscoperto e usato infinite volte in questo mese. È una parola semplice, scontata e poco usata ma accidenti, quanto è potente. Come in tutte le grandi storie però, e questa è ovviamente una grande storia visto che è la mia e io sono una “starrrr”, come dicevo scherzando, ci sono dei grazie speciali. Il primo è per mamma. Il nostro è, e sarà sempre, un legame unico. Il mio sangue è il tuo. Quando abbiamo scritto questa lettera papà mi sfiorava l’ombelico. Mi dava un gran fastidio, come solo lui riusciva a fare, ma mi ha ricordato che da qui mi hai fatto respirare e mi hai nutrito, all’inizio della nostra storia. So che mi senti in modo speciale, fisico e spirituale, e questo non cambierà mai. Ti ho fatto faticare ma tu ci sei sempre stata. Anche ora che ti mettevo continuamente alla prova, adolescente rabbiosa, e ti provavo a smontare pezzo per pezzo per diventare anche io donna, tu eri sempre lì e alla fine era a te che mandavo i messaggi più intimi in cui potevi scorgere cosa avevo realmente nel cuore.
Il secondo è per Niccolò.
Ti voglio bene Goblin.
Non amavo dirtelo, ma ti voglio tanto bene.
Quante volte ho conosciuto nuove persone grazie a te, alla tua capacità di farti amare in pochi minuti e quante volte mi hai spronato e mi sono fatta coraggio per farti vedere che io ero forte più di te!
E che ridere se ripenso a come ti maltrattavo da piccolo, facendoti fare tutto ciò che volevo (anche ora in verità).
Non cambiare, cresci così, hai una bellissima anima e io me ne intendo, lascia fare.
Il terzo grazie è per le amiche più care. Per Alice e Arianna, in rigoroso ordine alfabetico, per carità non ci vedete altri significati che poi me la menate fino all’infinito, e per le amiche più strette della mia classe, Ginevra, Noemi, Chiara, Chiara, Viola, Camilla, Miriam. A voi ho scritto delle lettere più intime, qui c’è troppa gente che ascolta e tira su col naso, per cui qui vi dico solo grazie. Gli altri non me ne vogliano, siete veramente tanti.
Il quarto grazie è per tutti gli amici di mamma e papà che ci, e li, hanno sostenuti così tanto in questo periodo. Avete condiviso con loro questo fardello, vivendo questa storia e accompagnandoli lungo delle salite che neppure al Giro d’Italia…
Un grazie è per i datori di lavoro di mamma e papà, perché hanno dato ai miei genitori modo di non preoccuparsi altro che di me. Hanno permesso loro di stare con me quanto volevano. Non era dovuto e non era scontato.
L’ultimo grazie, il più lungo, alla mia nuova famiglia, con cui ho vissuto intensamente questi ultimi 40 lunghissimi giorni.
Una famiglia che non avrei mai voluto incontrare ma che ora mi manca tremendamente e che non avrei mai voluto lasciare.
Ho sempre avuto paura di medici, esami e punture, chi mi conosce lo sa bene. Ma ho incontrato un gruppo straordinario di donne e uomini, infermieri e medici.
Papà è un ingegnere. E gli ingegneri, quando sono in difficoltà, fanno una cosa, iniziano a contare. Lui ha provato a contare le persone che mi hanno accudito assiduamente, più di 30. Ha contato gli interventi, 6, le TAC, più di 20 perché alla fine si è pure distratto, le risonanze magnetiche, 3. Ha anche provato a contare le ore di assistenza che mi sono state dedicate, la quantità di farmaci e materiali di ogni tipo che sono stati usati. Poi ha perso il conto, ci ha rinunciato travolto dai numeri e rimbambito dalla stanchezza, perché lui è un po’ vecchio…
È straordinario quanto un ingegnere in questi casi sia incredibilmente inutile. Può giusto mettersi da parte e non fare domande per non intralciare gli altri.
Qui ho incontrato medici che si sono spinti oltre qualsiasi limite, provando tutto ciò che era possibile e forse anche di più.
E gli infermieri…Fanno turni massacranti di 12 ore; sono infermieri, sì, ma anche psicologi, idraulici, meccanici, ingegneri, animatori (sì, non è un errore, anche animatori).
Gente che se può, e non è detto che possa, magari si concede qualche minuto di riposo tra le cinque e le sei di mattina, su un materassino steso a terra fra i letti dei pazienti, pronti a scattare al primo allarme che suona, quindi mediamente tre minuti dopo essersi stesi.
Altro che ER o Grey’s Anatomy, belle vaccate! Provateci voi a farvi operare di domenica mattina o alle tre di notte in America, poi ne parliamo…
Eccovi lì, lo sapevo, già sento quella parola che vi spunta nella testa “Sono Angeli…”.
Allora, gli Angeli che conosco io hanno due ali così, sono alti tre metri, sono biondi e cantano tutto il giorno. Qualche volta hanno delle spade fiammeggianti ma più per scena che altro, quindi basta, non se ne può più del paragone angelico, cercate di essere almeno originali.
Gli allarmi e le luci della terapia intensiva saranno una delle cose che i miei genitori ricorderanno a lungo. Immaginate di stare in uno stanzone con delle luci sempre accese, che dopo un po’ vi fanno male gli occhi, e di avere continuamente nelle orecchie il BIP-BIP di 7 camioncini che fanno retromarcia, solo che qui i camioncini sono monitor e se fanno BIP-BIP vuol dire che c’è qualcosa che non sta andando bene; immaginate di avere paura, di non sapere cosa succede e di non poter neppure parlare. Poi moltiplicate questa cosa per 10 e per tutti i giorni di degenza. Così forse avrete una prima, vaga, idea di cosa si prova dietro a quelle porte verdi.
Ma dietro a quelle porte ho scoperto anche tanto amore. Delle persone che mi hanno voluto bene, pianto per me, pianto di rabbia per non riuscire a fare di più, consolato e spronato mamma e papà, spiegato roba terrificante in modo semplice, addobbato la mia camera con i palloncini e festeggiato tra tutti i pazienti il mio quindicesimo compleanno, con la più bella ed emozionante festa della mia vita, canzoncina inclusa.
Gli sono e gli siamo grati.
A nessuno è andata giù come è finita.
Lo sapete, mamma, papà e Niccolò stanno cercando di trovare dei modi per far nascere qualcosa di buono da questa storia terribile e insensata. Avete visto che razza di putiferio sono riusciti a mettere in piedi per la raccolta fondi. In realtà nemmeno loro si aspettavano una cosa del genere, ma continueranno a spostare l’obiettivo della raccolta fintanto che avrete voglia di donare.
Aiutateli a realizzare le idee che avranno.
Anche io ve ne suggerisco 3, semplici, ma che richiedono un po’ di coraggio. Facciamo che durante le feste ci pensate seriamente?
- Chi può, se la sente, e non lo fa già, doni sangue. Durante i miei rave party ho usato diverse sacche di 0+ di ottima annata. Andrebbero restituite.
- Siate felici di pagare le tasse e pretendete che siano spese bene. Quello che è capitato a me potrebbe accadere a chiunque di voi (e faccio finta di non vedere chi ha fatto le corna o incrociato le dita o peggio…) ma quando ci si presenta in ospedale nessuno vi chiede il 730. Pensano a voi indipendentemente da tutto, dal vostro reddito, dalle vostre lamentele, dal vostro disinteresse verso i tagli alla sanità.
Useranno tutto quello che c’è, se c’è, per farvi stare meglio. Qui si vince solo se ci si aiuta. Nessuno può farcela da solo. E non raccontateci che voi andrete solo alla clinica privata! Vi voglio vedere quando ve la farete sotto, nel bel mezzo di una emergenza, se non chiamerete il 112. Pensateci quando non farete quella fattura, quello scontrino o chiederete il lavoretto in nero. So che questa cosa farà male a molti ma sapete cosa c’è? Non mi importa, io posso dirlo. Se vi sentite in colpa meglio, è l’occasione per cambiare! - Pensate alla possibilità di donare i vostri organi una volta che sarete morti. (e faccio ancora finta di non vedere gesti vari). I vostri organi potrebbero salvare altre vite, tanto alla resurrezione tutto tornerà al proprio posto, non vi mancheranno dei pezzi, state tranquilli, me lo ha assicurato il Capo.
Siamo alla fine, è quasi il momento dell’ultimo saluto.
Da ora ciascuno mi potrà trovare solo nel suo cuore e nella sua mente.
È stata una bella avventura finita troppo presto. Amate immensamente la vostra vita e fatene buon uso, dura sempre troppo poco.
Ora devo proprio andare, abbiamo pianto a sufficienza, voi dovete andare a comprare gli ultimi regali, io ho un appuntamento con nonno Giorgio, la bisnonna Nicla, e 2PAC. Stasera ci troviamo a bere spritz, magiare sushi, ascoltare rap e dire un sacco di parolacce, tutte quelle che papà non ha messo in questa lettera.
Magari, quando li incontrerete, non chiedete ai miei genitori, con quell’aria un po’ dubbiosa, se mi hanno fatto fare il vaccino per il Covid. In famiglia crediamo alla scienza, sappiamo che la terra non è piatta, usiamo il 5G del telefono, quindi la risposta datevela da soli, se non volete che papà vi picchi.
Ah, un’ultima cosa.
Se qualcuno incontrasse il mio angelo custode gli dica che sono molto dispiaciuta per la sua dipendenza dall’alcol. Negli ultimi 40 giorni è stato molto impegnato a sbronzarsi in qualche bettola. Io ho trovato altre persone che si sono prese cura di me, poi appena mi capiterà a portata di mano penso che saprò cosa fare con la sua spada infuocata.
Vi voglio bene.
Ora alzate le chiappe.
È veramente finita.
Per sostenere la raccolta fondi che sta a cuore a Marta e alla sua famiglia cliccate QUI (e aprite il vostro cuore).