Quando mi hanno chiesto di scrivere questo pezzo ho pensato molto al fatto che potesse sembrare troppo egoriferito, o che l’interesse nei confronti della mia storia potesse essere inferiore a un tema di attualità. Poi mi sono detta che invece poteva essere una buona occasione per parlare della donazione degli organi, e di quanto il racconto del nostro rene condiviso, diventato maggiorenne il 6 febbraio del 2021, potesse fare la differenza per chi sta affrontando una situazione simile alla nostra. E allora eccomi qui.
Quando Luigi, mio marito, si è ammalato, eravamo sposati da sei mesi, nostra figlia non ne aveva ancora due, e noi avevamo entrambi ventinove anni. Di quel giorno ricordo tutto, è come se la mia testa avesse memorizzato ogni frase, ogni immagine, ogni lacrima, lui che esce per una visita oculistica di controllo, io che allatto al seno la mia bambina, il cellulare che squilla e quelle parole “Irene il dottore mi sta mandando all’ospedale, ho la pressione altissima, ha detto che non mi fa uscire dall’ambulatorio se non vado al pronto soccorso.” Io che annuisco, ma che in realtà non capisco, mi sfugge il nesso tra l’oculista, la pressione e la necessità di una visita approfondita, poi arriva la seconda telefonata con Luigi che cambia anche il tono della voce, lo hanno ricoverato in nefrologia, perché ha dei valori completamente sballati che necessitano ulteriori indagini.
Era il 31 gennaio 2000, e da quel giorno è cambiato tutto, abbiamo scoperto che Luigi era già in insufficienza renale cronica, con uniche terapie possibili dialisi e trapianto, a salvarci dall’oblio la dottoressa Paleologo che ci parlò quasi subito della donazione tra viventi, con la meravigliosa scoperta che anche io, oltre i suoi familiari, avrei potuto aiutarlo. Ci ho messo due anni a convincere mio marito che prendere un mio rene fosse la scelta giusta, per lui e per la nostra famiglia, e adesso, a distanza di così tanto tempo, è arrivato il momento di dirgli grazie per i suoi diciotto anni di onorata carriera.
“Ciao nocciolina (questo è il nomignolo con cui ho battezzato il nostro rene) sei diventato maggiorenne, hai visto? Non ci avrebbe scommesso nessuno, tranne me e la dottoressa, e anche l’infermiera che il giorno dopo il trapianto ti disse che il mio rene era un mostro, che la tua creatinina era tornata da 12 a 1,3 in 24 ore, un mezzo miracolo, ma aveva sbagliato sai? Perché tu non sei stato “un mezzo” di nulla, tu sei stato “il miracolo”, il nostro miracolo. Tornassi indietro rifarei tutto, anzi no, la colonscopia col cavolo che la farei senza sedazione, piuttosto mi “drogo”, ma per il resto sì, perché donarti a Luigi è stata la cosa più bella che potessi fare nella mia vita. Grazie a te un giorno mi sono licenziata dal posto fisso al grido di “se ho donato un rene, figurati se non posso fare la giornalista” e così è stato.
Ho abbandonato ticket restaurant, busta paga, assicurazione medica, regione e mi sono trasferita in Romagna. Grazie nocciolina per averci permesso di avere una vita normale, senza l’incubo della dialisi che ti lava il sangue, ma ti succhia la vita, legandoti a un macchinario tre giorni su sette, con sedute buone, e sedute che ti facevano stare a letto per la stanchezza. Non tutti (per fortuna) sanno cosa voglia dire vivere appesi a un valore delle analisi, non tutti sanno cosa voglia dire vivere abbracciati a una malattia cronica degenerativa, e quindi grazie. Grazie per averci permesso di essere nuovamente genitori, dopo il dolore di un aborto terapeutico, e soprattutto dopo che ci avevano detto che sarebbe stato molto difficile diventare babbo e mamma durante la malattia, ma tu nocciolina sei stata il mito che ha sconfitto tutto, anche l’infertilità. Grazie per averci permesso settimane di camper selvaggio in Sardegna, quella vera, dove c’eravamo solo noi, la sabbia, il tramonto e le dune, per averci fatto scoprire i sassolini di quarzo bianchi e rosa di Is Arutas, il mare di Tuerredda e Scivu, che se ci penso un attimo e chiudo gli occhi, mi viene da piangere per tutta quella bellezza.
Pensare che ci hai provato in tutti i modi a renderti antipatica, al punto che il corpo di Luigi ha iniziato a produrre degli anticorpi per renderti la permanenza nella sua fossa iliaca il meno comoda possibile, ma tu niente. Te ne sei fregata anche del rigetto cronico e sei andata avanti, attaccandoti a lui con le unghie e con i denti, hai superato indenne miliardi di immunosoppressori e innumerevoli ricoveri, infezioni bastarde e un principio di polmonite interstiziale, era gennaio 2020 e ancora non c’era il Covid, ma secondo me ti sei beccata pure quello senza conoscere il nome, tenendo botta come se fossi Ironman, o Wonder Woman, perché in realtà tu questo sei per me, per noi. Sei stato il nostro supereroe, quello che ci ha regalato diciotto anni di quella normalità, tanto sottovalutata, da chi non può immaginare quanto possa mancare, quando te la strappano dalle mani, quando un dottore ti dice a brutto muso che tuo marito, l’amore della tua vita, quello che tu hai sposato da soli sei mesi, andrà in dialisi, massimo tra due anni, 730 giorni, e che l’unica speranza è il trapianto. Tu che fino a quel momento avevi paura anche solo di farti le analisi del sangue, che le uniche insufficienze conosciute erano quelle scolastiche, sei diventata la regina dei referti medici, la mascotte dei camici bianchi e dove gli altri vedevano muri che crollavano, hai visto opportunità di rinascita.
Da qualche tempo è iniziata la tua fase discendente, e quella malattia che avevo combattuto animo, cuore e corpo, è tornata di prepotenza, maleducata come solo lei sa essere, cattiva come i più cattivi antagonisti dei film d’azione, trascinandoci in un vortice di sentimenti maledetti e conosciuti, quelli che se ti fermi un attimo, riesci anche a chiamare per nome. Mi ci sono voluti due anni, 730 giorni per farmene una ragione, per prendere il dolore e mettermelo via, per cadere dieci volte e rialzarmi undici, per urlare al mondo perché noi, perché ancora una volta. Ma non c’è una spiegazione al dolore, il male è sempre senza un perché, e l’unica cosa che puoi fare è decidere di arrenderti alla corrente e affogare, o trovare la forza, quella che sai esserci dentro di te, e combattere, informarti, lottare e vincere.
Adesso sono pronta a lasciarti andare, anche se ci avevo creduto al per sempre, avevo sperato in vissero tutti felici e contenti, ora è quasi arrivato il momento di salutarci, ma lo faccio con il cuore gonfio di amore e di gratitudine per tutto quello che ci hai permesso di essere in questi diciotto anni. Lascio la porta aperta per chi verrà dopo di te, che si prenderà il tuo posto, pensando che sia il suo, come il tuo odore, ma tu sarai la nostra nocciolina per sempre, quella che un giorno di febbraio ci ha preso per mano insegnandoci a volare.
Ci saranno nuovi viaggi, nuovi amori (quelli dei nostri figli), nuovi figli (sempre quelli dei nostri figli, e quindi saranno i nostri nipoti, amore diventeremo nonni insieme) e un nuovo matrimonio, il nostro, perché Luigi mi ha promesso che con il secondo trapianto arriverà anche il nostro secondo grasso grosso matrimonio toscano/laziale, ma a questo giro mi sa che salutiamo tutti e ci sposiamo a Las Vegas.
E io magari mi vesto da nocciolina. Con amore e gratitudine infinita. La tua Irene”.