Dopo 18 anni l’intelligenza artificiale ha ridato la voce a una donna paralizzata

Ann Johnson aveva 30 anni quando è stata colpita da un ictus al tronco encefalico che l'ha paralizzata: ora ha riacquistato la voce grazie all'AI

Foto di DiLei

DiLei

Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Capita, purtroppo, di imbattersi in storie di misteriosa ingiustizia naturale. Una di queste è quella di Ann Johnson, che a soli 30 anni, dopo aver collezionato successi negli studi e aver iniziato a fare ciò che più amava, ossia insegnare matematica a bambini e ragazzini, ha subito un ictus al tronco encefalico. Ancora oggi la donna ricorda il pomeriggio che ha drammaticamente cambiato la sua esistenza: all’improvviso ha perso il controllo del suo corpo, cadendo per terra e iniziando a sentire una morsa che le impediva di respirare.

In ospedale, nessuno è riuscito a stabilire per quale ragione il suo organismo abbia risposto così, per quale motivo sia successo. Di fatto, da un giorno all’altro Ann ha perso ogni cosa per via di quella che in medicina viene chiamata sindrome locked-in (o LIS). Oggi però le cose sono molto diverse, perché dopo 18 anni è riuscita a riascoltare la propria voce, grazie all’intelligenza artificiale.

Il percorso di Ann e lo studio di Edward Chang

Ma cos’è la sindrome locked-in? In sostanza le persone affette da LIS sono pienamente consapevoli, provano tutte le sensazioni e le emozioni, i cinque sensi funzionano perfettamente, ma sono bloccate in un corpo dove nessun muscolo risponde. Subito dopo la diagnosi, Ann ha iniziato un percorso riabilitativo che le ha consentito di ricominciare a muovere alcuni muscoli del viso, del collo e degli occhi.

I movimenti erano e sono ancora oggi molto lenti, ma sono sufficienti per sorridere, muovere la testa e soprattutto per pilotare il sensore che le permette di comunicare proprio per mezzo degli spostamenti oculari. Tuttavia, i muscoli che dovrebbero permetterle di parlare rimanevano e sono rimasti immobili. La Johnson però non si è mai arresa e ha deciso di cominciare a proporsi come partecipante per tutti quegli studi che riguardavo le tecnologie cervello-computer.

Il suo caso è arrivato a una svolta quando ha incontrato il professor Edward Chang, presidente di chirurgia neurologica presso l’UCSF (University of California San Francisco), che insieme al suo team di ricercatori aveva in mente di sviluppare un sistema che potesse decodificare gli input del cervello trasformandoli in linguaggio parlato, sfruttando l’intelligenza artificiale.

La ricerca e i risultati

Chang, nel 2021, aveva già aiutato un uomo paralizzato a tradurre i segnali cerebrali in testo ottenendo un discreto successo. Con Ann, le cose sono andate anche meglio: il team del professore è riuscito a decodificare i segnali cerebrali trasformandoli in vere e proprie discussioni, ricostruendo anche i singoli movimenti che avrebbero animato il suo volto durante la conversazione.

Per farlo, il team ha impiantato 253 elettrodi sulla superficie del cervello della Johnson, precisamente sopra le aree fondamentali per il linguaggio. Gli elettrodi hanno intercettato tutti i segnali che, se non fosse stato per l’ictus, avrebbero mosso i muscoli delle labbra, della lingua, della mascella e della laringe di Ann, nonché del viso. Per mezzo di un cavo, collegato a una porta d’accesso fissata sulla testa della donna, gli elettrodi erano poi collegati a una serie di computer.

Infine, il passaggio più emozionante: il team è riuscito proprio a ricreare la voce di Ann utilizzando una serie di riprese della donna, intenta a tenere il suo discorso di matrimonio e altre piccole conversazioni. Il risultato è sì una voce sintetizzata, ma non robotica e straordinariamente fedele, che è riuscita a commuovere la Johnson e tutta la sua famiglia.

Le parole di Ann e le sue sensazioni

Grazie allo sviluppo della tecnologia, la vita di Ann è cambiata sotto diversi punti di vista: «dopo l’ictus – ha detto – ho fatto riabilitazione in ospedale, ma il logopedista non sapeva cosa fare con me. La sua impotenza si univa alla mia e il risultato era una rassegnazione sempre più cupa, mi sentivo priva di prospettive e scopo. Aver partecipato a questo studio, invece, mi ha fatto vedere e mi fa vedere tutto da una prospettiva diversa: mi sento, mi faccio sentire. Sono qui, ci sono. E sto facendo qualcosa non solo per me, ma per il mondo. Sto contribuendo a una positiva evoluzione della società».

«In qualche modo – ha poi concluso la Johnson – penso che questo progetto mi abbia anche tenuta qui, fra voi. Era impensabile che sopravvivessi fino ad adesso ed era impensabile che fossi più di un vegetale: invece, sto vivendo davvero. E spero che questo possa accadere anche ad altre persone nelle mie condizioni: è questo che dà un senso a tutti gli sviluppi e i progressi della tecnologia».