Francesca Mannocchi, la diagnosi che le ha cambiato la vita: “Mi svegliai senza sentire metà del corpo”

La giornalista e reporter di guerra racconta il giorno della diagnosi di sclerosi multipla, la freddezza del medico e il nuovo sguardo sulla vita

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Reporter di guerra tra le più autorevoli della sua generazione e autrice di reportage dai principali fronti mondiali per testate giornalistiche italiane e internazionali da La7 ad Al Jazeera, Francesca Mannocchi porta da anni il racconto dei conflitti e delle loro conseguenze umane.

Ma c’è un’immagine e una sensazione che non dimenticherà mai, per sua stessa ammissione: il colore del linoleum di una clinica privata e il gelo di una frase pronunciata da un neurologo, subito dopo una risonanza magnetica fatta d’urgenza. È quello il giorno in cui la giornalista scopre di avere la sclerosi multipla e la diagnosi arriva in modo brutale, senza nessuna preparazione, un po’ per caso.

Francesca Mannocchi, la sclerosi multipla e un nuovo sguardo sul mondo

“Una mattina mi ero svegliata che non sentivo metà del mio corpo”, racconta Francesca Mannocchi in un’intervista al Corriere della Sera. La visita, l’esame, la richiesta di capire se potesse ripartire per l’Iraq, dove insieme al fotoreporter e suo compagno di allora Alessio Romenzi stava seguendo la guerra a Mosul. E infine quella frase, secca, glaciale, del neurologo: “Ma lei dove vuole andare nel suo stato?”.

Da quel momento, dice, nulla è più come prima. Esce dalla clinica in lacrime, piangerà a lungo quel giorno per poi smettere di farlo del tutto. “Dopo di allora non ho più pianto per anni”, sottolinea. È come se la diagnosi avesse congelato le emozioni, quindi, chiuso a chiave una parte di sé. Ma con il tempo, quella stessa malattia diventerà uno strumento per leggere il mondo e trovare un nuovo linguaggio per raccontare il dolore e la resistenza.

Malattia e guerra, lo stesso confine sottile tra vita e dolore

Per la giornalista, la sclerosi multipla e la guerra hanno qualcosa in comune. Non perché il dolore sia paragonabile, ma perché entrambe le esperienze esasperano le emozioni e amplificano ogni sfumatura di ciò che si sente. La condizione di chi convive con una malattia cronica invalidante e quella di chi vive sotto le bombe condividono lo stesso confine instabile: “Quando stai bene, sei felicissimo, quando stai male, tristissimo”, confida.

A questo però si aggiunge la rabbia. “Analoga a quella delle madri che aspettano che il proprio figlio ritorni dal giocare a pallone e se lo vedono restituire sotto un telo bianco perché gli hanno sparato”.

Non usa mezzi termini, Mannocchi, per provare a spiegare la malattia con la quale, negli anni, ha imparato a fare pace. L’ha accettata come compagna di vita, una compagna scomoda certo, ma reale, una parte del suo corpo e della sua storia. E da lì è ripartita, cercando un modo nuovo per raccontare la realtà, le guerre, le ferite di un mondo sempre più in fiamme.

Francesca Mannocchi, dal fronte al teatro con “Crescere, la guerra”

“Se ieri mi sarebbe bastato il solo reportage televisivo, oggi sento il bisogno del teatro per arrivare a un pubblico diverso”, dichiara. E così eccolo qui, il palcoscenico. Da fine novembre con il violinista Rodrigo D’Erasmo, la reporter porta in scena Crescere, la guerra, uno spettacolo che intreccia la sua esperienza personale con le voci di chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle.

Sul palco non è solo la giornalista “dal fronte” – che sia l’Iraq o la Siria, la Libia, l’Ucraina o Gaza – ma una donna che racconta come quel lavoro e quella diagnosi abbiano ridefinito per sempre il suo modo di stare al mondo.

Un’infanzia senza favole e uno sguardo sempre acceso sulla realtà

Per capire questa radicalità dello sguardo bisogna tornare alla bambina che è stata: cresciuta in una famiglia semplice della periferia romana, lontana dai privilegi dei quartieri “bene”, con un’educazione concreta e pragmatica. Non ha mai creduto alle favole e fin da piccola ha cercato solo storie vere, aderenti al mondo così com’è. È da quella formazione, unita ai primi passi nelle radio romane e a un percorso professionale costruito tra gavetta e ostinazione, che nasce il suo modo di raccontare la guerra e il dolore.