Il ricordo si affievolisce. Il mondo diventa quasi estraneo. Piano piano, ci si dimentica delle esperienze e delle persone con cui si è costruita una vita. Sul cervello pare calare una sorta di nebbia che progressivamente si diffonde. Chi si trova a fare i conti con un padre, un marito, una moglie, un fratello, una sorella, un amico che affronta la malattia di Alzheimer vive in un caleidoscopio di sensazioni che paiono incomprensibili.
Purtroppo, nonostante gli sforzi e la ricerca, si inizia solamente ad intravvedere qualche trattamento in grado di frenare il degrado psichico della persona che affronta questa malattia. Per questo ci vuole l’impegno di tutti, sia sul fronte della scienza per trovare soluzioni che possano davvero frenare l’evoluzione del quadro sia sotto l’aspetto sociale, visto che è fondamentale offrire alle famiglie che vivono questa realtà il necessario supporto sanitario, sociale e psicologico. In occasione della Giornata Mondiale sulla Malattia di Alzheimer del 21 settembre, questa è la vera sfida. E purtroppo siamo ancora lontani dagli obiettivi.
Il rischio al femminile
La scienza sta cercando di dare una spiegazione che vada oltre al fatto che le donne stesse, mediamente, vivono più a lungo dei maschi. Così è emersa un’ipotesi, celebrata in uno studio apparso qualche tempo fa su Neurology, secondo cui anche i mutamenti ormonali tipici della menopausa potrebbero – il condizionale è d’obbligo – agire su questo fronte.
La ricerca ha valutato una popolazione di 85 donne e 36 uomini all’età di 52 anni, senza alcun problema cognitivo che potesse far sospettare un possibile problema di salute di tipo neurologico e soprattutto con medesime condizioni in termini di familiarità per malattia di Alzheimer e valori simili di pressione sanguigna, visto che l’ipertensione può rappresentare un problema per la salute cerebrale. Inoltre, anche i test cognitivi dei soggetti considerati avevano risultati simili.
Poi tutti i partecipanti hanno effettuato un percorso simile basato sull’analisi con Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), esame che consente di scoprire se ci sono aree cerebrali sui cui si sono manifestate placche, oltre ovviamente a risonanza magnetica funzionale. Considerando specifici parametri, come ad esempio la velocità di metabolizzazione del glucosio da parte del cervello e il volume della materia bianca e grigia cerebrale, oltre ovviamente ai livelli di placche con deposito di proteine beta-amiloide quando presenti, gli studiosi si sono accorti che i punteggi della popolazione femminile erano più bassi. In particolare, nel cervello femminile c’erano più placche (30 per cento in più) rispetto ai maschi e più di un quinto in meno di efficacia del metabolismo del glucosio da parte del cervello, sempre in confronto ai coetanei uomini.
Per il momento siamo solo a livello di ricerca. Ma rimane una realtà: la malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta da Alois Alzheimer il 4 novembre 1906 su una donna di Francoforte con una grave forma di demenza progressiva. I segnali d’allarme più classici sono legati al decadimento cognitivo e alla perdita della memoria, in un percorso che purtroppo tende ad aggravarsi nel tempo. Nelle forme più gravi in pratica il malato si distacca completamente dal mondo, con difficoltà a mantenere i ricordi ed anche a riconoscere gli affetti. Le ricerche dicono che i primi segni della malattia possono esserci già 20 anni prima dell’inizio dei sintomi. Per questo è fondamentale riconoscere per tempo le persone a rischio anche se ad oggi si può fare un trattamento limitato ai problemi causati dalla patologia, e non alla sua causa.
Un Paese sempre più anziano
Stando ad una ricognizione del Centro Studi di Senior Italia FederAnziani sui dati ufficiali relativi a questa patologia, le cifre fanno davvero paura, anche e soprattutto alla luce del progressivo invecchiamento della popolazione che colpisce il nostro paese. Il deficit cognitivo è una condizione che comporta la progressiva compromissione delle funzioni conoscitive in modo tale da pregiudicare il mantenimento di una vita autonoma.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità riferisce stime di crescita allarmanti del deficit: 35,6 milioni di casi nel 2010 che raddoppieranno nel 2030 e triplicheranno nel 2050 con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno (uno ogni quattro secondi) e il cui impatto economico sui sistemi sanitari sarà di circa 604 miliardi di dollari l’anno, con incremento progressivo. In Italia, il numero totale dei pazienti con deficit cognitivo è stimato in oltre un milione, di cui circa il 60%, ovvero 600mila, con malattia di Alzheimer, e circa tre milioni sono le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza dei loro cari con notevole impatto anche sul piano economico e organizzativo.
A segnalarlo sono le cifre del Ministero della salute. Il maggior fattore di rischio associato all’insorgenza delle demenze è l’età, aspetto questo che in una società che invecchia, come la nostra, rende l’impatto del fenomeno di dimensioni allarmanti, tanto da poter prevedere che queste patologie diventeranno, in tempi brevi, uno dei problemi più rilevanti in termini di sanità pubblica. La prevalenza della demenza nei paesi industrializzati è circa del 8% negli ultrasessantacinquenni e sale ad oltre il 20% dopo gli 80 anni. Secondo alcune proiezioni, i casi di demenza potrebbero triplicarsi nei prossimi 30 anni nei paesi occidentali. In Italia, secondo le proiezioni demografiche, nel 2051 ci saranno 280 anziani ogni 100 giovani, con aumento di tutte le malattie croniche legate all’età, e tra queste le demenze.
Come faranno le famiglie e il sistema tutto a reggere l’urto di questa emergenza nello scenario di continuo invecchiamento della popolazione senza una politica che sappia prevenire e contrastare il suo impatto con interventi tempestivi e con la giusta pianificazione? Bisogna mettere il tema al centro delle politiche socio sanitarie. Bisogna programmare metri quadri di RSA che abbiano la capienza per contenere il fenomeno. Bisogna fare i conti con una struttura sociale che è molto cambiata nei decenni: basti pensare che se nel 1970 il numero medio di figli per famiglia era di circa 2,4, oggi ci sono solo 1,2 figli per famiglia, con un vero e proprio dimezzamento.