È bianco, ha due occhioni profondi e un sorriso simpatico: si chiama Pepper ed è un robot usato per aiutare i bambini autistici. Un modo per farli sentire a loro agio, per non turbarli e insegnare loro a socializzare non nel modo “corretto”, ma nel modo più naturale possibile in base ai loro bisogni e alle loro esigenze.
Sì, perché occorre precisarlo: l’autismo non si cura, si comprende. E Pepper è uno degli strumenti che, adesso, si possono sfruttare per una visione più completa di questa sindrome che agli occhi di molti appare ancora estranea, incomprensibile. E che per chi la vive in maniera diretta può risultare estraniante.
A utilizzare quello che è il primo robot umanoide al mondo in grado di identificare i volti e le principali emozioni umane è il laboratorio sviluppato dal Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino, Fondazione Paideia, Jumple e Intesa Sanpaolo Innovation Center, all’interno del progetto Sugar, Salt & Pepper – Robot umanoidi per l’autismo.
La sperimentazione, iniziata a fine febbraio nel contesto delle attività di Fondazione Paideia, si basa su un laboratorio terapeutico settimanale finalizzato a far sì che ragazzi e bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico sviluppino delle capacità di dialogo e interazione in maniera serena e monitorata.
Obiettivo del laboratorio è mettere a sistema le competenze legate alla robotica educativa e sociale con i bisogni dei bambini e ragazzi autistici. Nello specifico il robot Pepper (fornito da Intesa Sanpaolo Innovation Center), progettato per interagire con gli esseri umani nel modo più naturale possibile attraverso il dialogo e il suo touch screen, vuole essere uno stimolo utile e attrattivo nel rapporto con bimbi e adolescenti con disturbi dello spettro autistico.
Il suo scopo è quello di migliorare la qualità della loro vita e garantire un futuro più facile in termine di relazioni. Per mezzo di Pepper, infatti, bambini e ragazzi possono iniziare a socializzare con gli operatori umani: dapprima si rivolgono al robot e poi, pian piano, iniziano a rapportarsi con loro, senza nessun tipo di pressione.
Il processo è del tutto graduale e mai forzato: vengono, infatti, osservati in maniera puntuale sia i dati ambientali che quelli interpersonali. Ciò permette di approfondire meglio il profilo di ogni bambino analizzando il contatto visivo, le iniziative di comunicazione, le richieste di aiuto, gli stati emotivi e le preferenze.
Ciò che ne deriva è un’assistenza a tutto tondo, percepita come un gioco e non come un obbligo. Un modo virtuoso per avvicinarsi a un mondo fragile, pieno di sfaccettature, che merita di essere trattato come deve: con la leggerezza di una carezza e la delicatezza di un sorriso.