Giornalista uccisa a Gaza a 33 anni, l’ultima lettera al figlio è il suo testamento

Mariam Abu Dagga è stata uccisa in un raid sull'ospedale di Nasser. La giornalista, prima di morire, ha lasciato una lettera al figlio

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Paola Landriani

Lifestyle Editor

Content e lifestyle editor, copywriter e traduttrice, innamorata delle storie: le legge, le scrive, le cerca. Parla di diversità, inclusione e di ciò che amano le nuove generazioni.

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Quando si ha trent’anni si immagina il futuro, si costruiscono progetti di vita. Ci si dedica a un lavoro che gratifica e si gioisce, la sera, nel tornare a casa dai propri cari.

Non dovrebbe essere normale temere costantemente per la propria vita, vivere sotto il fragore delle bombe e sentire il bisogno di scrivere un testamento, un messaggio di ricordo per chi si ama: non mentre si cresce un figlio, né mentre si svolge un mestiere che chiede soltanto coraggio e verità.

Eppure, Mariam Abu Dagga, giovane giornalista freelance, ha affidato tutto a una lettera al figlio Ghaith: poche righe di amore e dignità destinate a restare oltre la sua vita. Mariam è morta durante un raid a Gaza. A sopravvivere, la sua voce: un messaggio che è al tempo stesso preghiera, promessa e speranza.

Mariam Abu Dagga, la lettera testamento al figlio Ghaith

Mariam Abu Dagga è morta il 25 agosto durante un raid israeliano sull’ospedale Nasser di Khan Younis, mentre svolgeva il suo lavoro di giornalista. Aveva 33 anni e un figlio piccolo, Ghaith. Prima, aveva messo per iscritto ciò che una madre non dovrebbe mai trovarsi a scrivere: un messaggio d’addio che è diventato il suo testamento.

“Ghaith, cuore e anima di tua madre, ti chiedo di non piangere per me, ma di pregare per me, così che io possa restare serena”. Una richiesta, quella di non piangere, che la giornalista collaboratrice dell’Associated Press aveva fatto anche ai suoi colleghi e che, ovviamente, è stata impossibile da rispettare.

Poi, la voce di Mariam cambia tono, si fa quasi un invito, un incoraggiamento sussurrato: “Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio”.

“Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te – continua -. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me. Tu sei il mio amore, il mio cuore, il mio sostegno, la mia anima e mio figlio: colui che mi fa alzare la testa con orgoglio. Sii sempre felice e conserva una buona reputazione. Ti prego, Ghith: la tua preghiera, poi ancora la tua preghiera, e poi ancora la tua preghiera”.

I giornalisti caduti a Gaza: il fragore del silenzio

Mariam non è stata l’unica a pagare con la vita il suo mestiere. Nei due raid all’ospedale Nasser, accanto a lei e ad altri civili, sono morti altri quattro colleghi: reporter e fotoreporter che, come lei, avevano scelto di raccontare la guerra con coraggio e dedizione.

Ogni nome è una voce interrotta, un racconto che si spezza in mezzo al rumore delle bombe. Hussam al‑Masri, Mohammed Salama, Moaz Abu Taha e Ahmed Abu Aziz: ognuno di loro aveva una storia, una famiglia, sogni e speranze.

“L’uccisione di giornalisti a Gaza dovrebbe sconvolgere il mondo, non spingendolo a un silenzio attonito, ma ad agire, chiedendo responsabilità e giustizia” ha dichiarato la portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani, Ravina Shamdasani. “I giornalisti non sono un bersaglio. Gli ospedali non sono un bersaglio”.

Da ottobre 2023, i numeri continuano a crescere. Secondo le stime delle principali agenzie e organizzazioni internazionali, sono più di 200 i giornalisti palestinesi caduti nella Striscia di Gaza. Ogni cifra è un testimone che non potrà più raccontare la vita tra le macerie, la fame, il coraggio dei civili, la quotidianità sospesa sotto le luci incessanti dei bombardamenti che non lasciano scampo.

Eppure, anche nella morte, il loro lavoro parla ancora. Le telecamere ferme, i taccuini chiusi, le parole scritte fino all’ultimo momento diventano memoria e parole di chi tenta di sopravvivere e non può raccontare. Una narrazione collettiva che sfida il silenzio della guerra e ci mostra il volto e le azioni più spaventose dell’essere umano.