Ilaria Salis, la lettera dal carcere di Budapest: le condizioni della maestra italiana a processo

Cimici, punture, sei mesi senza poter sentire la famiglia: la lettera da Budapest di Ilaria Salis fa luce sulle sue condizioni in carcere

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Giorgia Prina

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Ilaria Salis, maestra italiana 39enne, denuncia le condizioni di vita in carcere a Budapest, in cui è detenuta dal 13 febbraio del 2023, giorno in cui è stata arrestata. L’accusa è quella di aver aggredito, assieme ad altri, due estremisti di destra durante la contestazione della manifestazione neonazista che “celebra il giorno dell’onore”. La descrizione della sua situazione detentiva, in cui si trova da ormai quasi un anno, ci arriva in una lettera, che consegnò al suo avvocato il 2 ottobre dello scorso anno.

La donna, le cui immagini in catene hanno suscitato proteste e indignazione, aveva denunciato le condizioni dei detenuti per permettere agli avvocati di Gabriele Marchesi, suo coindagato, per evitare che fosse data esecuzione al mandato d’arresto europeo e al trasferimento in un penitenziario ungherese. Cimici, una cella di esigue dimensioni, l’impossibilità di vedere e parlare con i suoi famigliari: ecco il testo integrato della lettera.

Ilaria Salis: la lettera dal carcere di Budapest

Ilaria Salis racconta cosa è successo appena dopo il suo arresto: in occasione dell’interrogatorio di convalida dell’arresto, dopo il sequestro dei vestiti, “sono stata costretta a indossare abiti sporchi, malconci e puzzolenti che mi hanno fornito in Questura e ad indossare un paio di stivali con i tacchi a spillo che non erano della mia taglia. Fino al 20 marzo quando il carcere ha finalmente autorizzato il Consolato italiano a farmi visita e a recapitarmi il primo pacco, sono rimasta senza un ricambio di vestiti (biancheria intima compresa) solo con i vestiti malconci e gli stivali con i tacchi fuori misura che mi avevano dato in Questura”. Si tratta di condizioni già denunciate dal padre della donna.

Manifesta poi il dolore nel non poter avere contatti con la proprio famiglia: “Per più di 6 mesi non ho potuto comunicare con la mia famiglia. Il primo settembre (dopo 6 mesi di detenzione) ho ricevuto l’autorizzazione a comunicare con i miei!”.

Ma le difficoltà principali (oltre alle complicazioni fisiche del vivere in una cella completamente chiusa: “Per un mese in totale, diviso in tre periodi, sono stata in 2 persone in celle che misuravano meno di 7 metri quadrati, escluso il bagno“. In attesa dell’esame dell’antropologo “sono stata per ore in 4 persone in una celletta che misurava 120 cm x 180 cm e da sola in una celletta che misurava 120 cm x 90 cm”), le manifesta nelle interazioni con una lingua non sua, non solo nella comunicazione di tutti i giorni, ma anche nella lettura degli atti processuali: “Non ho ancora ricevuto la traduzione dell’ordinanza del GIP datata 11 agosto!”, né la traduzione del ricorso al II foro (il riesame e si fa ogni volta che viene prolungato l’arresto)”.

“Dopo essere stata in cella per una decina di giorni con una donna ungherese sono stata trasferita in una cella singola dove sono rimasta per tutto il mese di marzo. in questo periodo non ero in grado di comunicare le mie necessità oppure se avevo un problema. A settembre ho provato a iscrivermi alla scuola elementare per imparare un po’ meglio l’ungherese ma la mia richiesta è stata rigettata perché non parlo l’ungherese“.

Le condizioni detentive: igiene e insetti

“Al mio arrivo non mi hanno dato neanche il pacco con articoli per l’igiene personale (…) mi sono trovata senza carta igienica, sapone e assorbenti o cotone (perché sfortunatamente avevo anche il ciclo) fino al 18 febbraio (…) Nelle celle in cui sono stata per i primi 2 mesi mancavano alcuni strumenti per pulire che secondo l’ordinamento dovrebbero essere in tutte le celle (mocio, paletta, secchio, scopetta per pulire il WC), li ho chiesti più volte ma non me li hanno forniti”.

“Alcuni giorni l’ora d’aria è in concomitanza con la doccia e nulla qui ha un orario fisso, quindi capita di saltare l’aria o la doccia. Spesso l’aria è in concomitanza con la spesa o con il cambio delle lenzuola e se non ci si ritrova in cella al momento giusto si salta la spesa o il cambio delle lenzuola. Per i primi tre mesi sono stata tormentata dalle punture delle cimici da letto, che mi creavano una reazione allergica, come hanno potuto vedere sia l’avvocato Lakatos che Attila Trasciatti [funzionario del Consolato d’Italia a Budapest, ndr]. Nonostante le mie ripetute richieste e i segni visibili che avevo anche in volto, non ho ricevuto per tutto il periodo né gli antistaminici né la crema. Per le cimici il carcere fa la disinfestazione ogni mese: ci fanno uscire in corridoio giusto il tempo di spruzzare il veleno e poi ci richiudono immediatamente in cella, costringendoci a intossicarci ogni volta. Ogni volta faccio fatica a respirare, mi brucia il naso e mi gira la testa”.

“Oltre alle cimici, nelle celle e nei corridoi è pieno di scarafaggi. Invece nel corridoio esterno, appena fuori dall’edificio da cui dobbiamo passare per andare all’aria, spesso si aggirano topi (non di compagnia)”.

“Il 28 febbraio mi hanno chiamato dalla cella dicendomi che c’era il mio avvocato. L’avvocato non c’era e invece ad aspettarmi c’erano due persone che mi hanno detto di essere della polizia ma non hanno esibito nessun distintivo. Mi hanno detto che il mio avvocato non sarebbe arrivato e neanche l’interprete e che volevano interrogarmi in inglese. Mi sono rifiutata e sono tornata in cella. Per poco meno di un mese, tra agosto e settembre, sono stata in una cella in cui secondo me non c’era sufficiente ventilazione per 8 persone perché le 2 finestre si aprono solo per qualche centimetro e qui si sta in cella completamente chiusa (compreso lo sportellino ad altezza cintura da cui ti passano il cibo) per 23 ore su 24”.

“Al sesto piano (dove mi trovavo fino alla fine di giugno) la sezione è mista e le celle maschili sono proprio a fianco di quelle femminili. Dal terzo al sesto piano ci sono 90-100 detenuti per piano con una sola guardia di sorveglianza al piano che lavora su turni di 12 ore. Dal terzo piano in su (ossia dove si trovano i detenuti) non esistono scale o uscite di sicurezza antincendio“.

Una ora d’aria al giorno e la malnutrizione

“Si trascorrono 23 ore su 24 in cella completamente chiusa: c’è una sola ora d’aria al giorno e la socialità non esiste (…) Tutte le mattine ci svegliano attorno alle 5:30 (sabato e domenica alle 6:00) e dobbiamo alzarci e rifare immediatamente il letto per poi rimanere chiuse nella cella senza fare niente tutto il giorno”.

“Le aree per il passeggio sono 5 in totale e sono a livello del piano -1 al centro del ferro di cavallo costituito dall’edificio, per cui non vi batte praticamente mai il sole. Sono completamente asfaltate, senza una panchina e con una rete metallica sopra la testa. Due di esse sono molto piccole: poco più di 25 metri quadrati e può capitare di doverci ‘passeggiare’ anche in 15 persone, per cui è quasi impossibile muoversi”.

Qui il carrello passa per la colazione e per il pranzo ma non per la cena (…) Credo che il problema della malnutrizione qui sia risaputo perché anche l’antropologo forense ha ritenuto di poter giustificare il fatto che la donna che compare nelle immagini sia più paffuta di come non ero io quando ho fatto la perizia a giungo, dicendo che la persona nelle immagini era nutrita. Il problemadell ’alimentazione a lungo andare diventa serio perché qui è vietato cucinare e nei pacchi può entrare solo il cibo comprato nello shop online del carcere. La spesa si può fare ogni due settimane; nel negozio ci sono poche tipologie di prodotti o in scadenza o ci sono limitazioni sull’acquisto di tutti i prodotti”.

Le mancate visite mediche

“Avevo un appuntamento fissato in Italia alla fine di marzo per un’ecografia al seno: ho un nodulo che ha un aspetto benigno, ma che diversi dottori in Italia mi hanno raccomandato di controllare periodicamente (..) a metà giugno mi hanno finalmente portato in un ambulatorio dove mi hanno fatto ecografia e mammografia (…) Io non ho ricevuto nessun referto scritto, che invece è stato consegnato al medico del carcere, a cui sia io che l’avvocato Santa abbiamo chiesto più volte che il referto sia inviato all’avvocato ma al momento non gli hanno ancora inviato niente”.

Il lavoro in carcere e la corrispondenza

“L’unica attività è un laboratorio di attività manuali a cui partecipo dal mese di maggio (…). Le detenute ungheresi ricevono l’equivalente di 2 euro e 50 cent per ogni seduta del laboratorio a cui partecipano, ma questo compenso non è previsto per le detenute straniere. I definitivi, che sono separati dai detenuti in cautelare e indossano l’uniforme, sono obbligati a lavorare e ricevono per un lavoro a tempo pieno l’equivalente di 50 euro al mese”.

“La corrispondenza con gli avvocati e con il Consolato non dovrebbero controllarla. Tuttavia, mi è capitato che una lettera che avevo spedito all’avvocato Lakatos e che un errore nell’indirizzo è stata rispedita al mittente, mi è stata riconsegnata con la busta aperta”.

I colloqui di persona si svolgono in un parlatoio con il plexiglass in mezzo e ci si parla con i telefoni. Anche i colloqui con il Consolato e con gli avvocati si svolgono in un parlatorio con il vetro, anche se questo vetro è meno spesso. Traduzione dei detenuti. Oltre alle manette qui ti mettono un cinturone di cuoio con una fibbia a cui legano le manette. Anche i piedi sono legati tra loro: intorno alle caviglie mettono due cavigliere di cuoio chiuse con due lucchetti e unite tra loro da una catena lunga circa 25 cm. Poi mettono un’ulteriore manetta a un solo polso, a cui è fissato un guinzaglio di cuoio che all’altezza dell’estremità è tenuto in mano dall’agente della scorta. Tutto questo materiale pesa qualche chilo e la legatura ai piedi permette di fare passi molto corti (…) Legata così ho dovuto salire e scendere diversi piani di scale. Si rimane legati così per tutta la durata dell’udienza e sono rimasta così legata anche per tutta la durata dell’esame svolto dall’antropologo”.