Giuseppe Pinelli, una morte senza verità

Il 15 dicembre 1969 il ferroviere anarchico precipita dal quarto piano della questura di Milano, diventando a tutti gli effetti la 18ma vittima della madre di tutte le stragi italiane, Piazza Fontana a Milano

Foto di Alessandra Del Re

Alessandra Del Re

Giornalista esperta di Costume&Società

Scrive per necessità e passione. Ama le storie degli altri, famosi e non, leggerle e raccontarle

Pubblicato: 12 Dicembre 2022 16:15

Era il 12 dicembre 1969. Quella sera Silvia e Claudia Pinelli, insieme a mamma Licia, si trovarono in casa i poliziotti in borghese. Perquisivano il loro appartamento: trovarono i regali natalizi che i loro genitori avevano impacchettato e nascosto, pronti per essere messi sotto sotto l’albero la sera del 24, dopo avere messe a dormire. Scartati, i giochi furono a terra insieme a tutto quello che i militari avevano trovato nei cassetti. Silvia e Claudia avevano 8 e 9 anni. Ancora non lo sapevano che non avrebbero rivisto più il loro papà.

Quel pomeriggio era successo qualcosa di terribile, uno di quegli eventi destinati a segnare la storia dell’Italia del dopoguerra: alle 16:37 una bomba scoppiata nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, aveva ucciso sedici persone, ferendone 88. La sera stessa il loro padre, il ferroviere Giuseppe Pinelli, venne portato in questura, prelevato dal circolo anarchico milanese di via Scaldasole, una succursale di Ponte della Ghisolfa. Giuseppe detto Pino non farà più ritorno a casa.

«Rispetto e omaggio per la figura di un innocente Giuseppe Pinelli che fu vittima due volte. Prima di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’improvvisa e assurda fine». (Giorgio Napolitano)

Chi era Giuseppe Pinelli

Giuseppe Pinelli era nato nel 1928 a Milano, nel pieno del ventennio fascista, in quello che era all’epoca il quartiere popolare di Porta Ticinese. La sua famiglia era molto povera, così per contribuire al bilancio di casa a 10 anni, finite le scuole elementari, Pino inizia a lavorare, prima come garzone e poi come magazziniere. Si appassiona alla lettura, coi pochi risparmi che tiene per sé compra libri alle bancarelle. Ha 16 anni quando diventa una staffetta partigiana. Si avvicina al movimento degli anarchici che è ancora un ragazzino, e dopo la Liberazione prosegue il suo attivismo. Negli anni contribuirà a fondare diversi circoli anarchici.

L’incontro con la moglie Licia

Licia Rognini nasce a Senigallia, nelle Marche, ma la sua famiglia si traferisce a Milano quando lei a poco meno di due anni. Suo padre è falegname anarchico, la mamma fa la sarta a domicilio. Cresce in una casa di ringhiera in viale Monza. Anche lei come Pino inizia a lavorare giovanissima, a 13 anni. E come lui ama moltissimo la lettura. Conosce quello che diventerà il suo compagno a un corso di esperanto, la lingua universale. Si sposano nel 1955. Dal matrimonio nasceranno due figlie, Silvia e Claudia. Tra il 1968 e il 1969 Giuseppe Pinelli è molto attivo politicamente, non ha paura a esporsi in prima persona. Crede nel cambiamento, in un futuro migliore. Licia lavora, si occupa della casa e segue le figlie. E il 12 dicembre, quando scoppia la bomba in piazza Fontana, parte la caccia agli anarchici e la polizia ferma Pino, pensa: «Gli faranno prendere un bello spaghetto e poi lo faranno tornare a casa». Non sarà così.

Non dimentichiamo mai che al quattordicesimo piano egli ci finì per le sue idee politiche (…). Per noi dunque l’anarchico morto accidentalmente è uno dei tanti compagni che ogni anno, per ogni anno della storia dello sfruttamento, è caduto per rappresaglia, per coprire come al solito gli errori, la responsabilità e le violenze cui questa paziente classe operaia è stata abituata. (Dario Fo, Morte accidentale di un anarchico)

L’ultima notte

Il 15 dicembre si celebrarono nel capoluogo lombardo i funerali delle vittime di piazza Fontana. Lo stesso giorno l’anarchico Pietro Valpreda finisce in carcere per la strage: sarà liberato tre anni dopo perché innocente. A mezzanotte del medesimo giorno Giuseppe Pinelli precipita dal quarto piano di una finestra dell’ufficio della questura di Milano e muore. Era stato prelevato tre giorni prima, il 12 dicembre. dal circolo anarchico di via Scaldasole. Aveva seguito lui stesso la squadra del commissario Calabresi in caserma, col suo motorino. Non era nuovo in questura, dove si era recato spesso per chiedere permessi per le manifestazioni. Viene trattenuto e interrogato più volte, e nonostante il suo fermo fosse scaduto da 24 ore, tre giorni dopo è ancora lì. All’ennesimo interrogatorio prenderà parte anche un agente dei servizi segreti (Lo Grano), insieme ai brigadieri Mainardi e Panessa, Caracuta, Smuraglia e al commissario Calabresi. Calabresi esce dalla stanza con in mano il verbale dell’interrogatorio, e in quel frangente di tempo Pinelli cade dalla finestra. Per le autorità si è tolto la vita, ed è un’ammissione di colpa per quanto successo a piazza Fontana. In ospedale il povero Pinelli arriverà già morto, ma i suoi familiari non potranno vederlo. La verità però è un’altra: Pinelli non c’entra nulla con la strage. Ed è stato trattenuto in maniera illegale. Morto. Morto “suicidato”.

Nessuno in questura si prenderà la briga di avvisare a casa la famiglia a morte avvenuta. Sua moglie Licia apprenderà la notizia da alcuni cronisti che nel cuore della notte si recheranno a casa sua per comunicarle quanto accaduto. La vedova Pinelli denuncerà il questore Marcello Guida, il commissario Calabresi e tutte le persone presenti in questura di sequestro di persona, abuso di autorità e omicidio. Saranno tutti prosciolti quando il 27 ottobre 1975 il giudice Gerardo D’Ambrosio archivierà le accuse: suo marito Pino non è morto né per suicidio né per omicidio, ma per un “malore attivo“. Va a capire cosa sia. Un’assurdità.

Non raggiungere la verità giudiziaria è una sconfitta dello Stato. È lo Stato che ha perso appunto perché non ha saputo colpire chi ha sbagliato. Perché in un modo o nell’altro, voglio dire direttamente o indirettamente, Pino è stato ucciso. (…) Non è una questione di vincere o di perdere: semplicemente uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste. (Licia Pinelli, dal libro Una storia quasi soltanto mia)

Odio su odio

Meno di anni dopo, il 17 maggio 1972, il commissario Luigi Calabresi viene freddato da Lotta Continua davanti a casa sua. Silvia Pinelli ricorderà le telefonate di minaccia cha arrivavano a casa: “Ve la faremo pagare”. Un decennio dopo Gemma Calabresi e Licia Pinelli si incontreranno in occasione di una commemorazione: «Si incontrarono il 9 maggio 2009, quando venimmo invitati al Quirinale. E fu molto importante – ricorderà sempre Silvia – Parlarono anche dei nipoti e dei figli. Non è la famiglia che deve dare le risposte che noi cerchiamo da sempre. È lo Stato che è sempre stato latitante, anzi omertoso. Nei confronti della famiglia Calabresi noi proviamo solo vicinanza per il dolore che hanno subito».