Spesso i piccoli comunicano i loro stati d’animo, le loro ansie e i loro dolori attraverso il cibo. Quest’ultimo, infatti, talvolta si trasforma in uno strumento di “rivolta” contro i genitori o, semplicemente, in un mezzo per affermare la propria volontà e i propri desideri. Così non sempre l’inappetenza è una conseguenza di un cattivo stato di salute, ma il segnale di qualcosa d’altro che i bambini vogliono lasciar trasparire senza essere costretti a dichiararlo apertamente.
Innanzitutto, una spiegazione, per così dire, “genetica”: l’essere buone o cattive forchette, o meglio, il senso di sazietà o di fame, è influenzato da alcune sostanze presenti nel cervello che si chiamano “neuroregolatori” e che determinano il fatto che alcuni bimbi abbiano più appetito di altri. È dimostrato, infatti, che spesso i bambini inappetenti sono figli di genitori che a loro volta lo sono stati, così come tante altre caratteristiche dell’aspetto fisico o del carattere dei piccoli derivano da quelle dei loro genitori. La cosa non dovrebbe, perciò, suscitare problemi: l’inappetenza, quando è genetica, non disturba e non rallenta la crescita e il bambino si limita a mangiare ciò di cui il suo corpo ha bisogno senza chiedere di più.
Talvolta, invece, la mancanza di appetito è causata da fattori esterni: in inverno, per esempio, e quando sono malati i bambini mangiano meno, forse anche perché, consumando meno, bruciano meno calorie e, di conseguenza, hanno meno fame. I mesi compresi tra gennaio e luglio, poi, sono quelli in cui i piccoli, più che aumentare di peso, crescono in altezza: se in questo periodo, quindi, la lancetta sulla bilancia non sale non è, necessariamente, conseguenza di scarso appetito, ma del normale sviluppo del bambino.
Quello che stiamo cercando di dire è che non è affatto il caso di allarmarsi davanti ad un “non ho fame” obbligando il piccolo a “ingozzarsi” di cibo; meglio valutare quali possano essere le cause di questo rifiuto comportandosi di conseguenza a seconda dei singoli casi. L’importante è non creare nel bambino uno stato di ansia nei confronti della tavola facendogli vivere liberamente il suo rapporto con gli alimenti.
Se è costituzionalmente passivo, infatti, il bimbo non reagirebbe ad un’eventuale forzatura, limitandosi a mangiare tutto quello che gli viene messo nel piatto anche quando è sazio, cosa che potrebbe causare un eccessivo aumento di peso (anche oltre quello suo ideale). Se, invece, il piccolo è costituzionalmente attivo, potrebbe rifiutare il cibo cercando, in questo modo, di imporre la propria volontà rispetto a quella dei genitori e trasformandolo in un fattore di scontro tra lui e gli adulti. Il risultato sarebbe che davanti ad una pressione (ovviamente esercitata a fin di bene) il bambino si ritrarrebbe in un guscio mangiando ancora meno di quanto, effettivamente, farebbe in condizioni normali.
La cosa importante è che i genitori trasmettano al bambino nei confronti della buona cucina il gusto e il piacere che questa comporta, imparando ad accettare quelli che sono i suoi limiti e le sue necessità e ricordando che un bimbo di 2 – 3 anni, in media, mangia la metà della porzione di un adulto e che tra i 2 e i 10 anni aumenta di circa due chili l’anno, valori che, se rispettati, risultano perfettamente nella norma anche quando il piccolo appare, in realtà, inappetente e privo di stimoli nei confronti del cibo.
Il problema dell’inappetenza infantile è stato molto ridimensionato da medici e pediatri e fatto spesso risalire ad un’eccessiva apprensione dei genitori nei confronti del cibo, apprensione spesso non giustificata.