Chi è Edith Bruck, testimone della Shoah

La storia di Edith Bruck, scrittrice e poetessa sopravvissuta ad Auschwitz, fra i testimoni della Shoah.

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Valentina Vanzini

Content Editor e Lifestyle Specialist

Cacciatrice di storie, esperta di lifestyle e curiosa per natura. Scrivo con e per le donne. Autrice del bestseller Mia suocera è un mostro.

La fame, l’addio alla madre, quando aveva solo 12 anni e la kapò che indicando il fumo che usciva dal camino le disse: “Tua mamma è lì, anzi ormai è sapone come la mia”. Quello di Edith Bruck, testimone della Shoah, è un racconto crudo e sconvolgente, che lei fa con una delicatezza che solo i giusti possono raggiungere. Scrittrice e poetessa, sopravvissuta ad Auschwitz, non ha mai smesso di raccontare sulle pagine quello che ha vissuto e visto con i propri occhi.

Classe 1932, Edith, vero nome Edith Steinschreiber, nasce a Tiszabercel e cresce a Tiszakarád, piccolo dell’Ungheria ai confini con la Slovacchia. Ultima di sei figli, sin da piccola conosce l’ostilità e la discriminazione a cui sono destinati gli ebrei. Nel 1944 viene deportata dal ghetto di Sátoraljaújhely ad Auschwitz. Da qui verrà condotta in seguito in altri campi di sterminio tedeschi, arrivando a Bergen-Belsen, dove nell’aprile del 1945, insieme alla sorella, verrà liberata.

“Finimmo ad Auschwitz – ha raccontato a Repubblica -. Avevo quasi tredici anni. Ci divisero tra donne e uomini, e poi tra coloro che erano in grado di affrontare i lavori forzati e quelli che direttamente erano destinati alla camera a gas. Si sentiva un puzzo asfissiante […] Passai sei mesi a Dachau. In quel periodo lavorai nelle cucine di un castello dove si erano insediati gli ufficiali richiamati. Pelavo rape e patate. Era proibito mettersi qualunque cibo in bocca e se provavi a nascondere qualcosa si vedeva immediatamente. Sotto un rozzo pastrano eravamo nude. Non avevamo calze e portavamo zoccoli. Un giorno il cuoco mi chiese come mi chiamavo. Lo guardai sorpresa. Risposi con il numero che avevo inciso sul polso: 11152. No, il tuo nome voglio sapere. Edith, risposi. E mi sembrò che quella voce fosse la stessa di un Dio che ti dona una nuova esistenza. Aggiunse che aveva una bambina della mia età. Mi regalò un pettinino. In quel momento compresi che quel gesto mi restituiva tra gli umani. Era la luce che si faceva strada dentro il buio”.

Quando la guerra finisce, Edith scopre che la sua famiglia non esiste più. Il padre, la madre, il fratello e altri componenti della famiglia sono morti. Il rientro a casa sua, in Ungheria, è impossibile, e nel 1946 prova a riabbracciare la sorella maggiore, in Cecoslovacchia, ma il tentativo fallisce. Nel 1948, Edith arriva in Israele, provata da anni difficili, dagli orrori che ha vissuto e dal dolore, ma non riesce ad accettare una realtà nuovamente segnata da conflitti. Si sposa per evitare il servizio militare, prendendo il cognome Bruck che usa ancora oggi, ma nel 1954 lascia il paese e si stabilisce a Roma.

In Italia, Edith inizia a raccontare con maggiore intensità e forza la Shoah. Lo fa con i suoi scritti, con le poesie che scavano nel profondo e rivelano frammenti piccoli e grandi di una tragedia che il mondo non può dimenticare. A Roma inizia a lavorare con Nelo Risi, fratello del regista Dino, e il sodalizio artistico si trasforma presto in amore. Un sentimento forte e indistruttibile, che porta Edith a prendersi cura per undici anni del marito, affetto da una malattia neurodegenerativa, sino alla sua morte nel 2015.