Palermo, 6 gennaio 1980: l’omicidio di Piersanti Mattarella

La mattina del 6 gennaio 1980 un sicario mise fine alla vita di Piersanti Mattarella: ancora oggi l'eco del suo operato risuona nella mente chi lotta contro la mafia

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Redazione

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Uno dei problemi più dolorosi e spinosi di chi lotta attivamente contro la mafia è riuscire a trasferire tutto l’impegno, la forza d’animo e il disperato desiderio di giustizia di chi è morto per la causa. Con il passare del tempo i ricordi sbiadiscono e i nomi di chi ha combattuto strenuamente rischiano di restare ancorati solo ai libri di storia. È per questo che vale la pena, ciclicamente, ripercorrere le tappe della vita di coloro che hanno versato sangue nella speranza che i posteri potessero avere un’esistenza migliore.

Oggi cercheremo di raccontare, oltre al semplice nozionismo, chi era Piersanti Mattarella, vilmente assassinato il 6 gennaio 1980 nella sua Palermo. E cercheremo di farlo non solo parlando dei disperati momenti dell’omicidio, che devono comunque essere ricordati per via della cruda esecuzione alla luce del sole, ma anche e soprattutto dando spazio ai suoi valori, al suo cuore, alle sue idee. Che sì, ancora oggi, come quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, camminano (e si spera camminino sempre) sulle nostre gambe.

Piersanti Mattarella e le idee in fermento

Tanto elegante, riservato e posato quanto bruciante d’idee rivoluzionarie: Piersanti Mattarella aveva mente e cuore allineati, orientati verso concetti di giustizia che non si sono mai andati d’accordo con il concetto, tanto radicato (soprattutto) nella Sicilia dei suoi tempi di “le cose vanno fatte così”. D’altronde era figlio di Bernardo Mattarella, ministro democristiano che si discostava dalle retoriche del regime mussoliniano dimostrando pubblicamente di essere uno dei più attivi esponenti di un gruppo di cattolici antifascisti palermitani.

L’esempio del padre e l’aver vissuto in quel di Roma nel 1948, vivendo i radicali mutamenti dell’appena nata Repubblica Italiana, fece nascere in lui un urgente desiderio di giustizia e d’equilibrio difficili da spiegare ma evidenti nel suo percorso politico: dopo la laurea in Giurisprudenza, Piersanti si dedicò all’attivismo politico-sociale, cercando di comprendere a fondo (e in qualche modo venire a capo) i problemi dello scenario nazionale.

Piersanti Mattarella

Conobbe Alcide De Gasperi e Aldo Moro e con loro, nonostante la giovane età, ragionava e disquisiva condividendo idee e propositi. Moro, in particolare fu una delle persone che più lo ispirò. Nel 1958, con il cuore carico d’idee e propositi, tornò a Palermo dove decise di vivere e dove conobbe la moglie Irma Chiazzese, amore della sua vita. A Palermo, città meravigliosa ma già fortemente segnata dall’illegalità, Mattarella volle cominciare la sua carriera lavorativa, diventando professore universitario e avvocato.

Di fatto, vivere e muoversi a Palermo significò per Mattarella confrontarsi con qualcosa che non riusciva ad accettare: la governance della Regione era indietro, era pericolosamente impregnata di scorrettezze che Piersanti non riusciva a non criticare. Aveva delle idee in fermento, il suo senso di rivalsa si plasmava e prendeva forma in quella che sarebbe stata una cultura meridionalista d’avanguardia e che doveva avere come centro assoluto un impegno politico puro, sociale, lontano da interessi illegittimi.

L’attività politica e il bene comune

Nel giro di pochi anni, Piersanti Mattarella divenne non solo il leader nascente della Democrazia Cristiana, ma anche il promotore della Solidarietà Autonomistica, una formula politica che il 9 febbraio 1978 gli permise di diventare Presidente della Regione Siciliana contando su una giunta regionale che doveva teoricamente essere orientata ad altissimi principi politici: Mattarella parlava di trasparenza completa, di riduzione degli incarichi, di rotazione delle persone nei centri di potere.

La visione di Mattarella era completamente mirata al bene comune e a una politica evoluta che doveva avere al centro della sua azione sempre e comunque l’interesse sociale. Dopo l’assassinio di Aldo Moro, Piersanti riuscì anche a formare uno staff di altissimo profilo, insieme al quale portò avanti un’azione riformatrice che distribuiva in maniera equa il potere decisionale politico, senza lasciarlo tutto nelle mani del singolo politico.

Iniziò a indagare, ad andare a fondo nelle cose, molto più a fondo di quanto si fosse fatto in precedenza: individuando il diffuso problema di abusivismo edilizio, ridusse gli indici di edificabilità dei terreni agricoli e rese trasparente la legge sugli appalti, portando alla luce illeciti e abusi. Già in questa fase pestò i piedi a un clan mafioso (Inzerillo-Gambino), per via di ispezioni finalizzate a riportare equilibrio nel settore pubblico.

Ancora, riformò gli enti economici, anche qui introducendo criteri di efficienza e trasparenza, oltre che limiti e condizioni per le cariche. Si fece sempre più determinato nella lotta alla mafia, prendendo posizione in maniera ancor più palese dopo l’omicidio di Peppino Impastato: recatosi a Cinisi, infatti, attaccò Cosa nostra con un discorso durissimo che stupì gli stessi sostenitori di Impastato. Non si tirò mai indietro nell’indagare, neanche quando a essere additato era l’operato degli assessorati della Regione. Anzi, riteneva ancor più urgente andare a fondo quando erano le istituzioni a essere oggetto di sospetti.

L’omicidio e l’eredità

Come abbiamo detto, era la mattina del  6 gennaio 1980 quando un sicario pose fine alla vita di Mattarella. Qualora i motivi per cui la mafia sentì l’urgenza di freddarlo non fossero chiari da quanto abbiamo appena elencato, riportiamo una citazione del libro Per non morire di mafia del senatore Pietro Grasso: «Mattarella stava provando a realizzare un nuovo progetto politico-amministrativo, un’autentica rivoluzione. La sua politica di radicale moralizzazione della vita pubblica, secondo lo slogan che la Sicilia doveva mostrarsi con le carte in regola, aveva turbato il sistema degli appalti pubblici con gesti clamorosi, mai attuati nell’isola».

Scomodo, troppo scomodo. Così, mentre l’allora Presidente della Regione Sicilia stava guidando la sua Fiat 132 per andare a messa, insieme alla moglie Irma, alla suocera Franca Chiazzese Ballerini e alla figlia Maria, un uomo si avvicinò all’auto e sparò diversi colpi di rivoltella calibro 38 attraverso il finestrino. Dopo i primi colpi, tutti indirizzati a Piersanti, il sicario si recò verso una Fiat 127 bianca ferma poco avanti per ricevere un’altra arma, con cui esplose altri colpi in direzione dell’auto.

Piersanti Mattarella

Piersanti Mattarella morì immediatamente. La moglie, che cercò di proteggerlo dalla seconda serie di colpi, venne ferita al braccio e nella sua memoria è ancora impresso il volto del killer. Sul posto accorse anche Sergio Mattarella, in seguito divenuto Presidente della Repubblica. Ancora oggi, l’omicidio di Piersanti presenta ombre e lati oscuri, nodi difficili da sciogliere perché implicano la collaborazione dello Stato.

Riesce difficile giungere a una conclusione, riesce difficile sbrogliare una matassa così intricata. Ed è anche per queste difficoltà, e per rendere giustizia alla memoria di quello che è a tutti gli effetti stato un eroe, che occorre ricordare non solo il modo in cui è morto, ma anche e soprattutto le ragioni per cui è stato ucciso, sperando che un giorno possa ottenere ciò che ha sempre cercato: trasparenza e verità.