Paola Barbato, regina italiana del thriller: “Dalle mie paure nasce tutto”

Paola Barbato, una delle migliori scrittrici italiane di thriller, ci racconta come nascono i suoi libri. E da cosa trae spunto per i suoi serial killer: "Mai fatto un giro alle poste il giorno in cui danno la pensione?"

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Sara Gambero

Giornalista esperta di Spettacolo e Lifestyle

Una laurea in Lettere Moderne con indirizzo Storia del Cinema. Appassionata di libri, film e del mare, ha fatto in modo che il lavoro coincidesse con le sue passioni. Scrive da vent’anni di televisione, celebrities, costume e trend. Sempre con un occhio critico e l'altro divertito.

Paola Barbato è senza dubbio una delle migliori scrittrici italiane di thriller. Milanese, classe 1971, sceneggiatrice di Dylan Dog, autrice e prolifica di thriller dal 2006 (Bilico, Mani nude, Non ti faccio Niente, L’ultimo ospite, la trilogia composta da Io so chi sei, Zoo e Vengo a prenderti, Scripta manent e l’ultimo, La cattiva strada), un compagno anche lui scrittore, tre figlie, due cani, un’associazione creata che si occupa di una malattia genetica rara, si fa fatica a capire dove riesca a trovare il tempo e il modo di scrivere tutto quello che pubblica. Ce lo ha spiegato lei.

Autrice per Dylan Dog, scrittrice premiata di thriller dove incubi e terrore sono in primo piano. Da dove nasce questa attrazione per il genere?
Credo che le persone scrivano di due cose: o di qualcosa che gli è molto vicino o molto lontano. Ci sono scrittori come Salgari, che scriveva di meravigliose avventure senza essere mai uscito dalla propria casa e ci sono quelli come me, che  scrivono quello che sono e che osservano. Io sono inquieta per natura, intrisa di paura, vedo il pericolo ovunque. Tendo a guardarmi sempre intorno aspettando che qualcosa possa accadere. Poiché queste caratteristiche sono insite in me, tanto valeva che le sfruttassi nei miei libri.

Tra i lettori c’è una netta divisione: chi adora i thriller e chi non riesce a leggerli. Perché la paura attrae o allontana?
Leggere un thriller è un po’ come andare sulle montagne russe, vivere una di quelle avventure adrenaliniche che regalano delle sensazioni quasi al limite, vicine alla morte. C’è chi dice ‘ma perché devo vivere queste cose’ e chi invece le vuole vivere proprio per questo motivo. I thriller sono le montagne russe della narrativa: devi essere una persona che gode e gioisce di quel tipo di emozione per apprezzarli. Aggiungo che in fondo leggere thriller o leggere horror può anche essere rassicurante, perché quando finisci e riponi il libro tutto termina lì.

Da dove arriva l’ispirazione per la storia di un tuo romanzo?
Può arrivare da qualsiasi parte. Anzi, molto spesso le mie idee nascono per un equivoco. Ti faccio un esempio: una volta ero ad Arma di Taggia con due amiche libraie a nell’osservare la spiaggia vuota, gli animali gonfiabili dei bambini abbandonati, giocavamo a indovinarne le forme.  Una di loro ad un certo punto ha detto: “ Io vedo un Pegaso”. E io ho capito: “Io vedo un fegato”. Da lì ho subito pensato: “Immagina se anziché tre amiche fossimo cacciatori di organi in un paese del Sud America, a pensare di rapire un bambino che gioca sulla spiaggia…”. Questa associazione è nata da un equivoco, ed è cosi che funziona per tutte le mie storie: mi arriva una suggestione che è portatrice di un sapore, e da lì parte poi tutto il lavoro più complesso. Ma questo istante in cui arriva il seme è inaspettato. Quando mi chiedono come faccia a venirmi l’idea per i miei seriali killer rispondo: “Andate a farvi un giro alle poste il giorno in cui danno le pensioni…”.

In quale momento della giornata scrivi?
Ho avuto un momento felice della mia vita in cui scrivevo di notte, il periodo antecedente la nascita delle mie figlie. Adesso arrivo spessi a fine giornata in condizioni tali che non potrei mai, anche se recentemente un po’ ho recuperato la scrittura notturna.  Diciamo che scrivo in tutte le “anse di tempo” che mi vengono regalate dal destino. A volte benedico le presentazioni dei libri, perché gli spostamenti e i viaggi in treno mi consentono di avere dei ritagli di tempo fondamentali. Nelle giornate standard scrivo quando riesco, prevalentemente la sera, se non è stata una giornata eccessivamente faticosa. Di sicuro non mi posso permettere la crisi creativa: appena ho un attimo scrivo, pure male, anche se andrà rielaborato, ma devo farlo: sfruttare il tempo che ho!

Tre figlie, un compagno anche lui scrittore (Matteo Bussola, ndr)  due cani, una associazione che hai creato (“Mauro Emolo” ONLUS , che si occupa della malattia genetica neurodegenerativa chiamata Corea di Huntington). Come riesci a gestire tutto?
Facciamo team-up alla grande. Per esempio ora sono impegnata alla stesura di un libro che uscirà nel 2023, e ho ancora due o tre mesi di scrittura, lui invece è sotto consegna, questo significa che in questo momento mi faccio carico io delle incombenze famigliari. Viceversa se sono io sotto consegna se ne occupa lui. Quando poi siamo sotto presentazione, che è uno dei momenti più belli ma anche più difficili da gestire abbiamo un calendario condiviso in cui ognuno segna e tiene sott’occhio gli impegni dell’altro.

Una organizzazione pazzesca
Ma infatti facciamo anche un sacco di cavolate! Sai quante volte ci ritroviamo accavallati? In agguato poi ci può essere l’imprevisto, come la malattia di una figlia…L’unica cosa che teniamo in particolare attenzione sono i Festival, perché quelli non possono essere spostati. Per il resto tutto è sacrificabile, tranne alcuni appuntamenti, come per esempio le recite di fine anno delle ragazze, che sono sacre: lì non si prende nessun impegno.

Nei tuoi libri non c’è un personaggio, detective o ispettore, ricorrente, come spesso accade. Non ami affezionarti troppo ai tuoi personaggi?
La verità è che voglio sopravvivere ai miei lettori. Ho tanti colleghi che hanno scelto la strada della serialità, con il rischio di finire schiavi dei propri personaggi, perché quando si decide di cambiare non si può più, il pubblico non lo perdonerebbe, avendo instaurato dei legami cui non è disposto a rinunciare. Personalmente finché riuscirò ad avere delle idee originali preferisco cambiare e anche se ho dei personaggi cui i lettori si sono affezionati, che non ho ucciso e che magari mi piacciono molto, non voglio e non sono in grado di correre questo rischio.

Da scrittrice di thriller, qual è la tua più grande paura?
Ho paura solo di quello che può capitare alle mie figlie, alle persone che amo. Delle cose che possono succedere a me in realtà ho talmente tante paure, da talmente tanto tempo, e per qualunque cosa, che poi alla fine non ho più paura di niente! È una grande paradosso ma succede così. Mentre vivo nel terrore che possa succedere qualcosa agli altri, alle persone cui voglio bene. E una delle mie paure più grandi è quella di trasmettere loro questa mia ansia.

Lo scrittore che ti ha fatto più paura paura, al quale ti ispiri?
Stephen King, di cui sono veneratrice più che estimatrice. Non lo considero un autore dell’orrore ma uno scrittore che ha scritto anche storie dell’orrore. Credo che ci sia molta più complessità nei suoi libri di quanta non gliene venga riconosciuta.

Un libro che ti ha cambiato la vita?
A suo tempo è stato proprio Stephen King: mi sono avvicinata a lui che avevo 14 anni, quando lessi Carrie. Un libro molto diverso da quelli che venivano proposti allora ai ragazzi della mia età, della serie: “non facciamo loro troppa paura”. King parlava finalmente di cose che conoscevo, per esempio di bullismo, che è stato uno dei temi ricorrenti della mia adolescenza.

Solo King?
In realtà sono stata influenzata anche da scrittori molto diversi dal mio genere: Daniel Pennac, Stefano Benni, Mario Vargas Llosa:  autori che mi hanno conquistata per il loro modo di raccontare. Perché non è tanto il cosa ma il come viene raccontato. I libri sono oggetti che bisbigliano e quando senti che un libro ti ha parlato, allora anche tu vuoi parlare a qualcun altro.

I bambini oggi sono distratti quotidianamente da mille device (tv, play station, cellulari). Quanto pensi sia importante trovare la chiave giusta per far amare alle nuove generazioni la lettura?
Ogni epoca è figlia del proprio tempo: quando ero piccola, ci sentivamo dire: “certo ora con la televisione non si legge più”. E prima ancora si diceva: “Certo ora con la radio non si legge più”. Eppure un tempo, quando c’erano meno distrazioni i libri non erano alla portata di tutti, erano un privilegio. Ognuno è figlio della proprio epoca, e in ogni nuova epoca si moltiplica semplicemente l’offerta. D’altronde negli anni 70 c’erano molti più  ragazzini che giocavano in cortile piuttosto che leggere un libro. Oggi ci sono semplicemente più mezzi. Non è vero che viviamo un tempo in cui non si legge più, solo si leggono cose diverse, libri nati su piattaforme, libri che sono stati scritti da lettori giovanissimi o libri che vanno a ripescare temi obsoleti, come il grande dramma amoroso omosessuale, oggi tornato di moda. Esistono tanti lettori che non sono lettori convenzionali, ovvero non leggono nel modo tradizionale. E moltissimo lettori non convenzionali scrivono. Il problema non sono le eventuali nuove distrazioni, quello non è un problema. Anzi, forse non c’è proprio il problema…

Quello che spaventa molti genitori è l’incapacità dei bambini di gestire i momenti di inattività, di noia, magari leggendo un buon libro…
Questo succede perché abbiamo una generazione iper stimolata. Partendo dal cartone animato che ti pone mille domande (non esistono più cartoni passivi). Assistiamo a una super sollecitazione che avvolge qualunque cosa, comprese le attività scolastiche. È evidente che quando poi all’improvviso nessuno sollecita, uno che non è abituato a sollecitarsi da solo resta spiazzato.

Tempo fa hai creato una associazione (la “Mauro Emolo” ONLUS) che si occupa della malattia genetica neurodegenerativa chiamata Corea di Huntington. Ce ne parli?
Me ne sono occupata per molto tempo, adesso per fortuna sono sorte associazioni che hanno colmato il vuoto che esisteva intorno a questa malattia e me ne occupo meno. La Corea di Huntington, anche detta “Ballo di San Vito”, è una malattia genetica neurodegenerativa simile al Parkinson e all’Alzheimer, che porta a perdere progressivamente il controllo del proprio corpo e del proprio intelletto perché i neuroni si ricoprono di placche tossiche che impediscono loro di lavorare. È una malattia molto rara e anche molto difficile da identificare, proprio perché confondibile con altre malattie neurologiche. Io avevo un amico morto molto giovane di questa patologia, ai tempi semi sconosciuta, per questo motivo ho creato l’associazione.

Tempo fa in una intervista hai detto: “Non ho passioni politiche, non credo che la politica esista. E con la fede non andiamo tanto bene”. È ancora così?
Per forza: oggi c’è grande somiglianza tra tutte le posizioni politiche, che si spostano di una tacca a seconda del partito. Faccio molta fatica a concordare con una sola posizione: in generale sono in disaccordo con tutti. Trovo che la classe dirigente abbia perso dignità, con tutti questi pollai, le urla, gli insulti reciproci. Prima di “Mani pulite”, quando vedevi un politico, vedevi una persona che avresti volentieri mandato in giro a rappresentare il Paese. Oggi si fa fatica a trovare una persona da cui ci si farebbe rappresentare. Per quanto riguarda la fede, Dio avrà avuto le sue buone ragioni per non darmela: la fede non si può autoimporre.

Ultima domanda, il nuovo libro in stesura: è un thriller?
Sì, e posso solo dire che è un libro fortemente corale, con tante voci, molti punti di vista e luoghi diversi. Un libro che mi sta dando del filo da torcere: mille rivoli che devono confluire in un unico fiume.