“Il week end mi destabilizza”: esordisce così al telefono Franca Leosini, quasi volesse sparigliare le ipotesi che questo lockdown abbia realmente cambiato le sue abitudini. “Storie Maledette non va mai in vacanza”, rinforza. “È un lavoro costante che richiede una concentrazione particolare, nel quale il faccia a faccia è solo la punta dell’iceberg”. Workaholic, direbbe qualcuno. Perfezionista, la definiscono altri. Ma lei è molto più semplicemente l’unica vera e indiscussa regina del noir, la prima ad averlo reso popolare in televisione con “Storie Maledette“, un ineguagliabile apparato narrativo che va avanti su Rai 3 senza soluzione di continuità (e di successo) dal lontano 1994.
Un genere, il suo, che richiede appunto molta cura, nell’analisi e nel racconto di episodi tremendi e dei loro protagonisti, quasi mai professionisti del crimine. Storie che Fabrizio De André definirebbe “sbagliate”, ambientate spesso ai confini culturali e spaziali della nostra società. Queste storie Franca le raccoglie e le racconta con uno stile unico e un’impronta personale marcata, che lascia però sempre spazio ad un grosso punto di domanda che si insinua nel pubblico alla fine di ogni puntata. Il tutto condito da un lessico che l’ha collocata – nel corso degli anni – sull’impervio terreno del cult.
Franca Leosini, così riservata e lontana dal presenzialismo che contraddistingue altri personaggi televisivi, è diventata uno dei meme ricorrenti per molte seguitissime pagine social e ogni sua nuova puntata è attesa da una schiera accanita e irriducibile di “leosiner“, i suoi fan. Questo termine è addirittura presente oggi nella Treccani, la più antica e nota enciclopedia italiana, e molti giovani leosiner sono disposti a rinunciare all’aperitivo domenicale pur di seguire “Storie Maledette“.
Durante una delle rare pause che si concede dal lavoro, abbiamo fatto un’eccezionale chiacchierata con Franca Leosini.
Ti sei sempre fatta da parte per raccontare le storie degli altri, che effetto ti fa quando sei tu ad essere intervistata?
È piacevole, stare ogni tanto dall’altra parte del tavolo, lo trovo rilassante. Quelle che faccio io non amo definirle interviste. Piuttosto dei faccia a faccia, dei colloqui durante i quali scorrono tanti elementi che non riguardano solo la storia di quel soggetto, ma una serie di vicende culturali e ambientali che rappresentano quella società nella quale la persona ha vissuto e di cui è – a tutti gli effetti – un rappresentante. Pensa ad Avetrana, quanto i luoghi hanno una loro forza narrativa e anche un’influenza su quello che si verifica: la stessa vicenda ambientata in una grande città non sarebbe stata la stessa.
Quelle che racconti sono molto spesso storie di provincia, storie di distanza, anche culturale.
È nella provincia che si verificano i grandi rapporti umani, che portano poi anche a svolte purtroppo drammatiche. La città è distraente, è dispersiva. La provincia invece è il cuore pulsante delle grandi storie, anche di quelle maledette. Dopo oltre vent’anni di questo programma posso affermarlo con consapevolezza: la provincia è la sede delle grandi passioni e anche delle loro drammatiche svolte.
“Storie Maledette” va in onda dal 1994, con 98 puntate all’attivo, eppure – salvo piccoli dettagli – non è mai mutato. Com’è cambiata invece la televisione attorno?
È sicuramente cambiata molto, nel bene e nel male. Un aspetto di cui porto piccolo vanto è quello di avere introdotto il noir in televisione e di averlo radicato in qualche modo nell’immaginario collettivo. Prima c’era stato solo “Telefono Giallo”, di cui sono stata anche una delle autrici. È da quel format che mi è nata poi l’idea di “Storie Maledette”.
E prima di “Telefono Giallo”?
Venivo dal cartaceo, i miei esordi sono stati nella carta stampata a L’Espresso e a Il Tempo, ma non sono mai stata giornalista di cronaca. La chiamata diretta dalla Rai avvenne per un’inchiesta su una grande storia napoletana, di cui era protagonista Anna Grimaldi, una bella signora dell’alta società napoletana la cui storia conoscevo molto bene perché già l’avevo raccontata in cartaceo.
C’è qualcuna delle “Storie Maledette” che ti ha particolarmente perseguitato nel tempo?
Un po’ tutte, ma in particolare modo quelle nelle quali – dopo aver studiato attentamente tutti gli atti – il verdetto mi ha lasciata incerta. Ho profonda stima nella magistratura e sono stata l’unica giornalista invitata alle celebrazioni per i 110 anni dell’Associazione Nazionale Magistrati, durante le quali ho detto espressamente che se non avessi fatto questo mestiere, sarei probabilmente entrata in magistratura. L’unico aspetto che però mi lascia perplessa è il libero convincimento del giudice. Prendiamo il caso di Avetrana, che abbiamo trattato in “Storie Maledette” e che tutti conoscono: Sabrina e Cosima sono state condannate all’ergastolo per un gesto d’impeto, ma mancano i fondamentali. Per dare l’ergastolo ci vuole la premeditazione del gesto e il vilipendio del corpo, che ha invece messo in atto il padre Michele, condannato ad otto anni. Salvatore Parolisi è stato invece condannato a diciotto anni con 29 coltellate alla moglie, perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. Per questo dico che il libero convincimento del giudice mi lascia perplessa. Quantomeno spero sempre nel principio del “tormento del magistrato”.
La cura con la quale procedi nell’analizzare le “Storie Maledette” ha molti punti d’unione con quella di chi conduce le indagini.
Per arrivare ad intervistare Sabrina e la madre mi sono letta quasi diecimila pagine di processo. Li tengo ancora là, bene in vista, questi faldoni che la mia redazione mi ha fatto incardinare come fossero dei libri.
Sei una perfezionista?
Bisogna esserlo, perché una parola sbagliata o diversa può cambiare l’impostazione e di conseguenza il giudizio. Non tanto della magistratura, sulla quale fortunatamente non incido, ma dell’opinione pubblica.
Il quadernone degli appunti – diventato a tutti gli effetti un cult – l’hai definito il tuo spartito musicale: ascolti musica mentre lavori?
No, perché la musica mi attrae e appassiona talmente tanto, che non riuscirei a concentrarmi. Lo definisco uno spartito musicale perché è come se solfeggiassi il testo: sono autore unico del mio programma e scrivo dalla prima all’ultima parola. Il testo è per me una struttura narrativa: do appena un’occhiata al quadernone che ho davanti e mentre studio la prossima domanda da fare, metto le pause che conferiscono il ritmo. La stessa domanda o la stessa frase, pronunciata in due modi diversi, può avere meno incisività o addirittura tutto un altro senso.
Al di là della cornice di “Storie Maledette”, appari poco negli altri salotti televisivi. Come mai?
Penso sostanzialmente che un’overdose della presenza di ciascuno di noi possa annoiare. Quando compari poco, quelle volte che lo fai diventa un evento meno banale, meno quotidiano. Ci sono colleghi che fanno gli opinionisti per professione, io faccio un altro tipo di mestiere. Oltretutto sono così affettuosi con me che mi invitano continuamente, per cui dovrei andare da tutti o da nessuno. È una scelta di riserbo la mia, di prudenza e in qualche modo anche di rispetto per il pubblico.
Di recente una tua affermazione sul femminicidio è stata duramente criticata dalla Rete Nazionale dei Centri Antiviolenza: sei stata fraintesa?
Confesso che mi sono stupita. Il lessico ha una sua importanza: la donna per me è donna, prima che essere femmina. Mi rendo conto che esista la necessità di creare delle connotazioni, ognuno di noi ha il proprio lessico e il mio non lo ricerco, lo possiedo. Credo che la parola femminicidio riduca in qualche modo la dimensione della donna e lo dice una che tratta molto spesso tragedie che – purtroppo – hanno per vittima proprio delle donne.
Ti sei mai chiesta dove nasca questa violenza sulle donne, spesso verbale prima che fisica, quale sia il suo seme?
La violenza sulla donna affonda purtroppo le sue radici nella storia. E’ indubbiamente cresciuta nel momento in cui la donna ha riscattato il suo ruolo, collocandosi non più dietro l’uomo, ma al suo fianco, e avanzando le stesse richieste di tipo sociale, morale e professionale. La donna ha acquisito nel tempo la possibilità di accedere a cariche e livelli di parità: è stato un percorso lungo, a tratti non facile, in quanto si andavano ad occupare spazi di pertinenza maschile. Più la donna ha acquisito presenza e più è cresciuto anche il livello di critica, di contestazione e quindi anche di violenza nei suoi confronti.
Attualmente come giudichi la condizione delle donne?
Mi sembra indiscutibilmente paritetica, basta pensare a quante direttrici di giornali, magistrati e altre donne ricoprano oggi cariche istituzionali. Prendiamo anche solo a Rai 3: lavoro in una rete in cui la prevalenza di autrici e conduttrici sono donne. Per cui il problema mi sembra annoso, superato, direi vintage.
Dopo che va in onda una puntata di “Storie Maledette”, qual è la tua routine del mattino seguente?
Non vorrei mai che arrivassero le 10, l’orario in cui escono i dati Auditel. Per me i numeri contano – ovviamente – ma ha ancora più importanza tutto ciò che viene scritto, sapendo che è l’unica bussola per capire realmente di aver fatto un prodotto onesto.
Temi così tanto lo share?
Dal mio punto di vista lo share andrebbe abolito, dovrebbe essere razionalmente proiettato su trasmissioni della stessa tipologia. Non puoi mettere a confronto “Storie Maledette” con “Live – Non è la D’Urso”, una valida trasmissione di tutt’altro altro genere e dedicata ad un altro tipo di pubblico. Il confronto andrebbe fatto fra format della stessa natura e con una durata similare. Per esempio, io finisco prima della mezzanotte mentre delle trasmissioni su altre reti proseguono fino all’una e oltre: non sono in alcun modo paragonabili.
Sui social ci sei e non ci sei: sono inondati di tuoi meme, eppure non esistono profili ufficiali di Franca Leosini.
Sono una persona davvero molto riservata e facendo questo lavoro ho pochissimo tempo: dietro ogni puntata si celano mesi di lavoro. Dalla scelta dei casi fino alle trafile burocratiche, “Storie Maledette” è complesso come una puntata di Montalbano. Anche per questo, il mio unico profilo dev’essere quello che appare dopo la musichetta che ormai tutti conoscono.
Non posso però credere che non controlli cosa viene detto sui social, magari sotto mentite spoglie.
Certo che li leggo, assolutamente. Mi gratifica tanto l’affetto di chi mi segue, addirittura mi commuove.
A proposito di chi ti segue, hai tantissimo pubblico giovane, i cosiddetti leosiner.
Il fatto che i miei fan siano anche giovani mi colpisce e mi rende felice. “Storie Maledette” è un prodotto impegnativo e il fatto che sia seguito anche dai giovanissimi lo trovo incoraggiante. Alcuni di loro li incontro per strada e mi fermano: “Domenica sera non esco perché c’è il tuo programma”. Lo trovo davvero gratificante.
Guardare “Storie Maledette” is the new “andare in discoteca”.
Diciamo che non è proprio come andare in discoteca, ma neanche come vedere un varietà meraviglioso e distraente di Fiorello, del quale peraltro sono pazza.
In che modo “Storie Maledette” può aprire la mente ad un giovane ascoltatore?
Mentre ascoltano si formano un’opinione, cambiando magari anche il proprio punto di vista sul soggetto. Ma non è utile solo a loro, serve anche a me: quello con il pubblico è un rapporto forte e intenso, di scambio continuo, che mi fa capire in che misura il pubblico è interessato ad un certo tipo di storie. I miei interlocutori del resto sono tutti dei non professionisti del crimine, che ad un certo punto della vita cadono nel vuoto di una maledetta storia. Certo, a volte premeditata e non casuale. Avere un seguito così forte mi dà quindi la misura che sto raccontando storie di vita che attraversano la nostra società e che, chi si appassiona a fatti non banali, segue con interesse.
Un seguito così forte che dura da così tanti anni, non è di certo casuale. C’è un aspetto di “Storie Maledette” del quale porti particolare vanto?
Mai e dico mai, in tutti questi anni, ho intervistato una persona che aveva detto una mezza parola con qualche altro giornalista. Tutti i miei interlocutori hanno parlato solo con me e mi risulta che non abbiano mai più parlato dopo.
Attualmente sei al lavoro su nuove puntate di Storie Maledette, ma stai mettendo anche altra carne al fuoco.
Guai a non avere nuovi progetti, bisogna vedere poi se si riescono a realizzare. A maggior ragione perché non mi butto mai su idee semplici: una cosa è difficile oppure non mi interessa. Le sfide banali non hanno mai fatto al caso mio.
La sfida più vicina è intanto l’estate: progetti?
Ho un piede a terra a Capri, il mio luogo dell’anima è quello. Pensa che quest’anno ci sarò stata soltanto otto o nove giorni, a mio marito ne avevo promessi dodici. Ma grazie al cielo ho poco tempo, amo tanto il mio lavoro e l’estate è un periodo proficuo per me. Ho ben pochi momenti per fare vacanze e di questo mi ritengo assai fortunata.