Antonio Milo, il celebre brigadiere Maione de Il Commissario Ricciardi, è al Teatro Golden di Roma fino al 30 novembre con Tangentopoli. Processo alla Prima Repubblica. Lo spettacolo, realizzato con il contributo del Ministero della Cultura e diretto da Andrea Maia che ha anche scritto il testo con Vincenzo Sinopoli, si apre in un’aula di tribunale dove due uomini simbolo di un’epoca si fronteggiano: Antonio Di Pietro, interpretato da Simone Colombari, e Bettino Craxi, affidato proprio a Milo.
A noi Antonio Milo ha raccontato di questo importante progetto teatrale che parla del processo del secolo in realtà mai realizzato. Ma anche delle buone probabilità che la quarta stagione de Il Commissario Ricciardi ci sia, dove rivederlo nel ruolo di Maione accanto a Lino Guanciale, Enrico Ianniello e ad Adriano Falivene.
In effetti, il grande pubblico vuole sapere cosa accadrà a Ricciardi e ai suoi amici dopo la morte di Enrica (leggi la nostra intervista a Maria Vera Ratti) e il trasferimento in Argentina di Livia (leggi la nostra intervista a Serena Iansiti).
Tangentopoli è un progetto teatrale che affronta un periodo cruciale della nostra storia recente. Come descriveresti questo spettacolo e qual è la sua natura?
Tangentopoli è una ricostruzione immaginaria, un processo che si ipotizza ma che, nella realtà, non c’è mai stato. Craxi non si presentò, portò un certificato medico, e Di Pietro si dimise quando iniziarono a indagare su di lui. Lo spettacolo immagina dunque “il processo del secolo”, quello che avrebbe potuto essere. Ma non si limita alla cronaca: è una fotografia della politica di quegli anni. Racconta le dinamiche interne dei partiti, il sistema di potere, le relazioni che reggevano la Prima Repubblica. Oggi viviamo in un tempo dove la memoria storica sembra accorciarsi, e invece sarebbe essenziale ricordare. Molti giovani non sanno neanche cosa fossero DC, PSI, PCI. Questo spettacolo, per me, ha anche il valore di un atto civico: rimettere la storia al centro, farla respirare di nuovo.

In Tangentopoli interpreti Bettino Craxi, come ti sei preparato per questo ruolo?
Ho scelto consapevolmente di non imitarlo. È una strada che avrebbe tradito lo spirito del progetto e sarebbe stata anche ingombrante, considerando il lavoro straordinario fatto da Favino al cinema. La nostra scelta è quella dell’evocazione: ricreare lo spirito del personaggio più che la sua immagine. Non ci interessa la precisione fisica, ma l’essenza emotiva e politica. Craxi è stato un uomo discusso, contestato, amato e odiato. Ma è stato anche un uomo, con un suo mondo interiore, le sue convinzioni, le sue fragilità. Il compito dell’attore è cercare di capire: come ragionava, perché prendeva certe decisioni. In quel periodo storico, certe scelte erano obbligate dall’ingranaggio politico stesso. Io provo a restituire questo: il sentimento dietro l’azione.
C’è in qualche modo un tentativo di “assolverlo”, di rivedere la figura di Craxi con maggiore indulgenza?
Non credo nell’assoluzione in questo contesto. La storia è la storia, le assoluzioni le lasciamo ad altre figure. Non è il nostro compito. Noi proviamo a comprendere, a osservare con onestà. L’obiettivo è restituire la complessità della politica, che non è fatta di buoni e cattivi, ma di decisioni difficili e di conseguenze spesso imprevedibili. Personaggi come Craxi o Andreotti sono sempre stati al centro delle discussioni e della critica, ma il loro spessore politico era enorme. Oggi – lo dico con amarezza – di statisti ne vedo pochi. All’epoca la politica guardava al lungo periodo, non allo slogan del giorno. Anche quando sbagliavano, ragionavano con una visione. Mi ha colpito molto accorgermi della distanza tra quella stagione e quella attuale.

Al momento siete al Teatro Golden di Roma, pensi ci sia la possibilità di portarlo anche in altre città?
Per il momento resta a Roma. Il futuro dipende dalla produzione e dalla risposta del pubblico. È uno spettacolo particolare, non leggero e richiede palcoscenici abituati a ospitare lavori che affrontano la storia e la politica.
Passiamo a un altro ruolo che il pubblico ama moltissimo: il brigadiere Maione ne Il Commissario Ricciardi. Cosa rappresenta per te questo personaggio?
Incontrare questo personaggio è stato come una favola, perché prima che mi offrissero il ruolo di Maione ero un lettore di Maurizio de Giovanni. Immaginavo quei personaggi, li vivevo nella mia fantasia e poi di colpo mi sono ritrovato dentro i loro vicoli, nei loro silenzi, nelle loro vite. La prima volta che ho girato una scena della prima stagione di Ricciardi ero con Bambinella [interpretato da Adriano Falivene ndr] in un vicolo: ero vestito da Maione e lo guardavo come se stessi entrando nelle pagine che avevo letto. Prima ho conosciuto il personaggio poi la persona. E lo stesso è accaduto con Lino Guanciale che ho incontrato già calato nei panni del Commissario. È come entrare in un’altra dimensione, è la bellezza di questo mestiere.
Secondo te ci sarà una quarta stagione del Commissario Ricciardi?
Il materiale non manca: De Giovanni ha scritto altri libri, quindi il materiale per andare avanti c’è. Ora la decisione è in mano alla Rai. I risultati ci sono stati: punte del 27% di share, ottime critiche, e soprattutto una qualità di produzione altissima. Ricciardi è una delle fiction italiane più esportate, venduta in oltre 50 Paesi. Direi che esistono tutte le condizioni per una quarta stagione, anche se nulla è ancora ufficiale.

Dopo Tangentopoli, stai già lavorando ad altri progetti?
Continuo col teatro. A febbraio sono in scena al Teatro Diana con lo spettacolo Jucatùre, I giocatori, di Pau Mirò, un autore catalano. Lo ha tradotto in italiano Enrico Ianniello che in Ricciardi interpreta il dottor Modo. È uno spettacolo che ha già una storia importante: dieci anni fa vinse il Premio Ubu proprio per la traduzione di Enrico. È un testo molto bello, divertente, ma allo stesso tempo emozionale. Racconta la storia di quattro personaggi che sono dei perdenti, dei reietti della società che alla fine ti fanno tenerezza, te li vorresti portare a casa. Questi quattro si ritrovano nell’appartamento di un professore per “giocare a carte”, ma in realtà non giocano mai: usano quell’incontro come ancora di salvezza, per raccontare le loro vite tragicomiche. Fuori da quella stanza sono fantasmi, dentro invece esistono. A un certo punto decidono di fare qualcosa per cambiare il loro destino, ma non posso svelarlo. Il testo ha il sapore del teatro dell’assurdo, con momenti sospesi, delicati, poetici. Secondo me è uno spettacolo che potrà avere grande riscontro.