Volevo solo essere felice (e magra)

Beate quelle che riescono a sentirsi a loro agio con molti chili in più, a fare pace con loro stesse e con lo specchio. Non ci sono mai riuscita

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Avete mai desiderato così tanto una cosa da aver paura della sua realizzazione? Ecco io oggi mi sento proprio così, a poche ore dall’intervento di sleeve gastrectomy (riduzione dello stomaco), provo sensazioni contrastanti, sono un misto di euforia ed ansia. Da una parte c’è questa immensa e sana voglia di rinascita, dall’altra una percentuale minima di agitazione, perché in ogni caso sempre di intervento si tratta, con tutte le variabili del caso, che per una maniaca del controllo come me, si riducono ad un unico grande problema: non sarò io a muovere la mani dell’operazione, mi dovrò affidare. Per questo è importante scegliere con cura il chirurgo e la clinica di cui fidarsi, perché leggere le esperienze di chi, prima di te, ce l’ha fatta sono un grande aiuto, sono quell’abbraccio di cui abbiamo bisogno, perché solo chi passa attraverso questo tipo di sensazioni, può conoscere e riconoscere quello di cui sto parlando.

Io sono stata una bambina magra, molto magra, una ragazzina acerba e priva di connotazioni femminili, sbocciata in una donna con le curve, ma tutte al posto giusto (la famosa botta di culo), una quarta di reggiseno su due gambe longilinee e un fisico da modella, pur mangiando come un camionista. Sono stata l’invidia di molte mie amiche – un’invidia buona eh – quella di chi ti guarda e pensa scherzando che prima o poi ti cambierà il metabolismo, come adesso dico io a mio figlio di diciassette anni, che fa colazione con tre brioche, mangia due piatti di carbonara e tre bistecche, e non ingrassa di un etto.

Ci ha pensato la vita a presentarmi il conto, che a volte se ci penso mi do della stronza da sola, quando le ragazze con cui uscivo avevano problemi di peso, e mi dicevano che io non potevo capire cosa significasse entrare in un negozio e non poter scegliere i capi da acquistare, che la mia frustrazione per quei due chili di troppo non era paragonabile al sentirsi rispondere dalla commessa “No, mi spiace per quelle come lei, non abbiamo niente”, il doversi per forza vestire come delle signore a vent’anni, perché nel 1990 non esistevano le curvy, nessuno stilista considerava le donne over 46 degne di indossare una collezione di moda. Ed io questo non l’ho provato, è vero. Sono stata un’adolescente e un’universitaria privilegiata, sono stata una Serena Van Der Woodsen senza portafoglio, innamorata della vita e della moda, superficiale quanto basta, con i punti di ritrovo in cui sfilare il mio metro e settantotto con una musica che senti solo tu nella testa, che fosse la mensa in Piazza dei Cavalieri o la casa dello studente, non ho mai dovuto lottare per avere un ragazzo. Quello che volevo ottenevo. Non ho permesso mai nessuno di scegliermi, perché ho sempre scelto io per prima.

Poi ci ha pensato la vita, il karma, quello che volete voi, chiamatelo con il nome che vi è più congeniale, a presentarmi il conto. Quello a lungo rimandato, l’amore della mia vita, l’uomo dei miei sogni, il padre di mia figlia, colpito da un’insufficienza renale cronica, con la prospettiva della dialisi e il trapianto. Avevo ventinove anni, ero sposata da sette mesi e mia figlia ne aveva solo uno, quando il mio meraviglioso castello è crollato. All’improvviso non ero più Serena Van Der Woodsen, mi sentivo la perdente tra le perdenti, e c’è voluto un po’ prima che capissi come arginare quel dolore, che imparassi a trasformarlo in opportunità di crescita, ma alla fine ci sono riuscita.

Donando un rene a mio marito ho trovato la chiave della felicità, della realizzazione personale, perché se con una sola piccola parte di me potevo salvare lui e la nostra famiglia da quella malattia bastarda, avrei potuto fare qualunque cosa, di sicuro sarei riuscita a realizzare i miei sogni. E così è stato. Mi sono licenziata dal posto fisso, sono diventata giornalista in due anni, bruciando le tappe, ma seguendo una gavetta ben precisa: quotidiano locale, settimanale nazionale, prima di gossip, poi storie vere, infine inchieste, prima sul cartaceo poi come inviata per le tv nazionali. Poi quando pensavo di aver vinto la mia battaglia e di aver pagato a sufficienza, la malattia si è ripresentata, più subdola e cattiva che mai, ed io ho non mi sono più vista, c’era solo lei, l’insufficienza renale. I ricoveri in ospedale, le infezioni da combattere e il cibo come consolazione.

Perché lui, il cibo, c’era sempre stato, non mi aveva mai tradito, mai nemmeno una volta, lo sapevo bene. Ha sempre funzionato così: dieta restrittiva, raggiungimento del peso e poi via ricominciare, una brioche alla volta, un piatto di pasta sempre più grande, per vedere se alla fine sarei riuscita a mangiare anche quel mostro che si stava mangiando il mio amore. Ma non si può stare a dieta tutta la vita, perché ad un certo punto la testa dice basta, ma la bocca non si chiude, e le persone pensano che tu sia una debole, perché che ci vuole? Basta non mangiare. A volte sono le stesse persone che ti stanno vicine a non capire quanto tu vorresti ritrovarti, quanto il tuo cervello non riesca ad adeguarsi a quello che sarebbe giusto, quanto sia facile perdersi tra una carbonara e una torta, perché quando la forchetta ti riempie lo stomaco, quel vuoto che tu senti dentro, quel buco nero sembra placarsi, quel buio infinito che si nutre delle tue paure sembra scomparire, ma dura il tempo di un pranzo, di una merenda o di una cena, per poi tornare a farti compagnia.

Non abbiate paura di chiedere aiuto, non nascondetevi dietro al vostro sorriso d’ordinanza, quello che avete imparato a indossare così bene, sognate in grande, datevi una possibilità, gli altri potranno non capire la vostra scelta o tentare di ostacolarla, ma la scelta è solo vostra, come vostre sono le lacrime. Tutte quelle che il mio specchio ha visto in questi anni, ogni volta che ho aperto l’armadio con gli occhi chiusi per non vedere il mio riflesso o mi sono nascosta in un caftano, perché alla fine puoi raccontartela che quei chili in più ti stanno bene che sei bella lo stesso che è l’età che bisogna accettarsi, ma se quella che vedi davanti a te non la riconosci, non ci sono parole di conforto che tengano. Perché tu lo sai, tu sai che quella non sei tu, quella che non riesce più ad alzarsi facilmente dal letto e dal divano, quella che indossa sempre gli stessi abiti, perché gli altri non le entrano, quella che comunque va a camminare perché sa quanto il movimento le faccia bene, ma deve ridurre i km percorsi perché le caviglie non reggono bene.

E tu continui a guardarti e a chiederti dove sia finita l’Irene che conosci, quella che non ha mai avuto paura di nulla, quella che spaccava culi e montagne, quella che non si è mai fermata davanti a niente, la cerchi tra una piega e l’altra del corpo, la senti urlare dentro di te, prima piano, poi sempre più forte, fino a quando non capisci che non se ne era mai andata, era solo nascosta, tu l’avevi nascosta per proteggerla dal dolore, quello muto e sordo, fino a quando non ce l’ha fatta più. Tu non ce l’hai fatta più. Perché annullarsi non cambia la situazione, il cibo cura il sintomo ma non la malattia, il dolce ti rende felice per quei minuti, ma poi ti trascina all’inferno se non riesci a fermarti. Datevi la possibilità di tornare ad essere felici, datevi la possibilità di giocare con i vostri figli, di ballare a un concerto, quando si potrà tornare a farlo, senza avere il fiatone, di entrare in un negozio e scegliere quello che davvero vi piace, non quello che siete obbligate a comprare. Datevi la possibilità di tornare a sorridere.

Irene, ti sto venendo a prendere.