Quattro secondi per morire: la strage di Brandizzo

Cominciano a chiamare le cose con il loro nome, certe morti non sono semplici incidenti, sono omicidi. 

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Morire di lavoro, morire per un errore umano, sembra impossibile che possa ancora accadere nel 2023, ed invece è esattamente quello che è successo a Brandizzo nel comune di Torino, dove il 30 agosto a perdere la vita sono stati cinque operai, Kevin Laganà, Michael Zanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Aversa e Saverio Giuseppe Lombardo, di età compresa tra i 22 e i 52 anni. Erano figli, fratelli, padri, e adesso non lo sono più. Adesso non sono più niente, avevano dei sogni che non potranno essere realizzati, e dei figli che non potranno più riabbracciare una volta tornati a casa, ci saranno orfani e vedove che piangeranno il loro nome e la loro mancanza, perché loro no, non torneranno più. La loro vita è finita su quei maledetti binari, poco prima di mezzanotte, in diretta telefonica, mentre il tecnico Rfi Antonio Massa stava aspettando l’autorizzazione a iniziare i lavori, autorizzazione che, a quanto pare, non è mai arrivata, anche nelle due telefonate precedenti, visto che la sala di controllo della stazione di Chivasso aveva detto di “no”, per via di un treno in ritardo. Adesso c’è chi porta un fiore, chi un peluche, c’è chi ha attaccato alla rete della stazione un caschetto giallo colorandolo di rosso, come il sangue che è stato versato, un sangue innocente, un sangue che apparteneva a dei corpi che adesso non esistono più, perché la furia di un treno merci li ha sorpresi a 160 all’ora. Quattro secondi per morire.

Come è possibile che quei ragazzi si trovassero proprio lì? Chi ha dato l’ok? Chi, di fatto, li ha mandati “consapevolmente” a morire? Chi ha giocato con la vita di questi operai? Un faro di luce, il treno che si palesa, sfrecciando da Chivasso, nel punto della svolta che precede il rettilineo dove inizia la stazione. Sarebbero passati soltanto quattro secondi, la notte del 30 agosto, dall’istante in cui il treno merci compare all’orizzonte al momento in cui i cinque uomini vengono travolti di spalle. Non lo hanno visto né sentito. La tragedia per loro è stata inevitabile perché: «Se stai al centro del binario non si sente rumore, cosa diversa è se si è posizionati di lato», racconta un tecnico delle ferrovie. Uno dei due superstiti infatti,  il caposquadra Andrea Gibin, investito dal faro di luce e dal vortice d’aria, si è salvato tuffandosi lateralmente. Viene da chiedersi che valore viene dato alla vita di questi ragazzi, alla disperazione delle loro famiglie, visto che pare che alcuni di loro prendessero una miseria per un lavoro potenzialmente così pericoloso da essersi rivelato in realtà fatale.

La croce sulla rotaia: l’ultimo post di uno delle vittime, Michael Zanera, pubblicato poco prima della tragedia

Che cosa non ha funzionato quella notte? Perché non può essere “solo” un errore umano, o di un singolo. Pare certo che non abbia funzionato il cosiddetto “circuito di binario”, un sistema che prevede lo scatto di un allarme quando qualcuno si trova sopra alla rotaia, innescando la segnalazione che provoca il rallentamento o lo stop del treno. La notte del 30 agosto non è accaduto nulla di tutto questo. C’era un guasto? Di sicuro non hanno sbagliato niente i cinque ragazzi che hanno perso la vita, visto che Andrea Gibin continua a ripetere “loro hanno eseguito gli ordini, il via libera c’era” anche se alla Si.gi.fer. nessuno commenta.  Ma il sospetto, forse quasi una certezza, arriva dalle parole di un ex dipendente della stessa azienda degli operai travolti dal treno, Antonio Veneziano: “Quello che è successo a Brandizzo era una prassi abituale, una prassi consolidata, perché tutti fanno così, se un treno è in ritardo ci si porta avanti. Iniziavamo a lavorare, svitavamo i chiavardini, dopodiché, prima del passaggio dei convogli ci buttavano fuori dai binari. Eravamo in sei sette per ogni gruppo, ma in quei casi c’era chi guardava le spalle. L’altra notte non è andata così, erano tutti sulla massicciata”.

Speriamo che la giustizia faccia il suo corso, e speriamo che la sicurezza sul lavoro trovi finalmente una regolamentazione corretta, non stilata sulla pelle dei defunti del giorno, cominciano a chiamare le cose con il loro nome, certe morti non sono semplici incidenti, sono omicidi.