Adesso è facile dire “io lo sapevo”, “me lo sentivo”, “l’avevo previsto in tempi non sospetti”, ma è proprio così. Quando sono iniziati gli Europei di calcio io l’avevo detto a mio marito, questo è il nostro anno, dopo aver mancato la qualificazione ai mondiali, ma soprattutto dopo questo anno e mezzo infame, che ci ha visti colpiti nell’anima da una pandemia mondiale, tanta e troppa era la voglia di riscatto. Perché noi Italiani siamo così: quando c’è da soffrire, quando c’è da fare squadra e combattere contro un nemico comune, non ce n’è per nessuno, siamo i più forti. E così partita dopo partita, azione dopo azione, rigore dopo rigore, ci siamo andati a riprendere quello che un po’ ci spettava di diritto, in uno stadio così pieno di tifosi avversari, 50.000 contro i nostri 11.000, Davide contro Golia, siamo stati gli spartani di Wembley.
E che soddisfazione ammutolire tutti i presenti che, dopo il primo gol arrivato nei primi tre minuti, avevano bruciato la bandiera italiana e fischiato il nostro inno nazionale. Dopotutto una squadra che, arrivata seconda, ritira le medaglie e se le toglie dal collo immediatamente, con un gesto che di sportivo ha ben poco, la coppa non se la meritava proprio, perché chi non sa perdere, difficilmente sa anche vincere.
La vittoria dell’Italia non è merito di un singolo, ma di una squadra, di un gruppo, che ci ha creduto fino alla fine, di un allenatore che ha voluto con sé un entourage di persone per bene. Mancini e Vialli sono il simbolo del calcio che amiamo, compagni di squadra, compagni di vita, e nel momento più difficile per Gianluca, la sua lotta contro il tumore al pancreas, Roberto lo ha voluto al suo fianco, perché un uomo che dice: “Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me. Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente”, può solo che insegnare a tutti come affrontare una sfida. E il loro abbraccio alla fine di ogni partita, e le lacrime di ieri sera in quel campo bagnato dalla pioggia, sono state la degna conclusione di un Europeo che tanto ha regalato anche in termini di umanità.
Perché il calcio non è solo un pallone e undici ragazzi in campo, quando è fatto bene diventa famiglia, diventa il gruppo con cui ti ritrovi agli allenamenti, alle partite durante la settimana, racconta di famiglie al seguito la domenica nel campetto dietro la chiesa, racconta di rinunce in termini di socialità, ma è anche quello che può insegnarti il valore del rispetto dell’avversario, come tutti gli sport dopotutto. E allora ripercorriamo insieme i momenti più toccanti di questo torneo, quelli che hanno dimostrato che dietro a dei ragazzi che rincorrono una palla, c’è molto, tanto di più.
È il 12 giugno 2021 quando al 43′ del match tra Danimarca-Finlandia, Eriksen finisce a terra, da solo. Il giocatore resta fermo, privo di conoscenza, sono minuti interminabili, sono attimi di terrore, perché quando Eriksen si è accasciato sul campo il cuore di tutti si è fermato. Ancora troppo fresco il ricordo di Davide Astori, e, prima di lui, di Morosini. Non si può spiegare a chi non lo vive cosa possa essere una squadra, cosa possa diventare un gruppo formato da venti ragazzi che dividono il campo, gli spogliatoi e la vita. A raccontarlo è la corsa di un capitano che fa il massaggio cardiaco e i compagni che si mettono in cerchio a proteggere il loro fratello dagli sguardi indiscreti delle telecamere. Per proteggere chi in quel momento non può farlo. E poi l’abbraccio sempre del capitano con la compagna di Eriksen, subito accorsa in campo lei, Sabrina, in lacrime, indossa la maglia della Danimarca, Sempre accanto al marito dal 2012, da quando si sono fidanzati. Le sue lacrime sono le lacrime di tutte noi, che con questo sport ci viviamo, e che in un attimo, un secondo, uno sguardo, ci siamo immedesimate nel suo dolore. Quello muto, sordo. Improvviso. Che ti strappa tutto senza preavviso. Per fortuna però questa volta c’è il lieto fine. “Christian Eriksen è sveglio e rimane in condizioni stabili. Resterà in ospedale per sottoporsi ad ulteriori accertamenti”. Ma quegli abbracci e quel cerchio sono la parte del calcio che spiega, a chi non lo vive, la parte migliore dello sport. La famiglia. Dentro e fuori dal campo.
È il 6 luglio 2021 l’Italia incontra la Spagna in una semifinale che ha il sapore di una finale, la squadra migliore incontrata fino a quel momento, diciamo la verità, è stata la partita più sofferta, perché gli spagnoli nel palleggio sono più forti, ma noi abbiamo qualcosa in più questa volta, la forza del gruppo, quella voglia di crederci fino in fondo, e così dopo il nostro primo gol di vantaggio arriva il pareggio nel secondo tempo di Morata, che però è lo stesso a sbagliare il rigore che ci permette di vincere. Ma questa volta a dare una lezione sul campo e fuori, è Louis Enrique, l’allenatore iberico, un uomo, ma soprattutto un padre, che lo scorso anno è stato costretto a dare l’addio alla figlia Xana, di soli nove anni, per un maledetto tumore osseo. Lui che entra in campo con la serenità negli occhi, di uno che sa che nella vita esiste la vittoria, ma anche la sconfitta, che quella che stanno per affrontare è “solo” una partita, lo si capisce dai saluti sinceri con Mancini, dal suo “Hola Roberto” e dall’abbraccio con De rossi, e soprattutto dal discorso finale.
“Per me non è una notte triste, bisogna sapere come vincere e come perdere. Nei quarti di finale siamo stati molto contenti per i rigori, questa volta ci è andata male. La sconfitta fa parte dello sport, del calcio, della vita. Bisogna imparare a gestirla. E devi essere di esempio per i bambini piccoli: quando perdi non devi piangere ma rialzarti. Non me ne vogliano gli Inglesi, ma tiferò Italia in finale”.
Ed arriviamo alla partita di ieri sera, l’Italia ha appena vinto gli Europei, dopo 120 lunghissimi minuti, tra i 90 regolari, i trenta dei supplementari ed il terno al lotto dei rigori, il nostro Donnarumma ha parato il gol decisivo a Saka, mettendo il sigillo tricolore su una coppa che mancava dalla nostra terra da 53 anni. La gioia e la felicità invadono le piazze e le strade, nello stadio di Wembley i tifosi inglesi restano ammutoliti, Mancini e Vialli piangono e si abbracciano, consapevoli di aver fatto la storia del calcio, insieme, dopo aver perso per strada Spinazzola, aver cambiato moduli di difesa ed attacco, aver investito su giocatori che rispetto a quelli delle altre squadre europee, sembrano così piccoli, a dimostrazione, che non sempre è la fisicità a fare la differenza, ma il cuore. Però è all’85’ del secondo tempo che il cuore dell’Italia si ferma, dopo una bellissima iniziativa personale, Chiesa viene stoppato al limite dell’area, la caviglia è distorta, lui prova a continuare per alcuni minuti, ma il dolore è troppo, chiede la sostituzione lasciando il posto a Bernardeschi. Confesso che alla sua uscita ho tremato non poco, perché Federico ha il guizzo della punta, siamo in parità, tra poco iniziano i supplementari, chi segnerà per noi? Sottovalutando di fatto la forza di una squadra. Poi la partita finisce come sappiamo, e mentre tutti i giocatori festeggiano tra di loro, questo ragazzo, classe 1997, dopo aver abbracciato i suoi compagni, cosa fa? In diretta nazionale prende il cellulare e fa un FaceTime con la sua famiglia, e con la medaglia al collo, urla un “Ti amo mamma” intercettato dalle telecamere che fa sciogliere tutte le mamme del mondo, che in quel momento lo hanno adottato seduta stante.
E allora diciamolo che abbiamo vinto gli Europei perché ce lo meritavamo, urliamolo che abbiamo fatto la storia del calcio perché dove c’è sofferenza c’è un Italia pronta a lottare, e sottolineiamolo che, sì i nostri figli saranno pure i più mammoni del mondo, ma volete mettere la soddisfazione di sentirsi urlare in diretta mondiale “Ti amo mamma”? Ci meritiamo tutte un figlio come Chiesa.
E un’ultima cosa agli inglesi: “Ops, the cup is coming to Rome”…