Il 27 maggio 2023, a Senago, si è consumato uno dei femminicidi più atroci degli ultimi anni. Giulia Tramontano, 29 anni, incinta di sette mesi, è stata uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello con 37 coltellate. Una vicenda che aveva scosso il Paese non solo per la brutalità del gesto, ma anche per la freddezza dimostrata dall’uomo nei giorni precedenti e successivi all’omicidio.
Impagnatiello, ex barman dell’Armani Hotel di Milano, conduceva da tempo una doppia vita: accanto alla relazione ufficiale con Giulia, portava avanti un legame parallelo con un’altra donna, all’oscuro della gravidanza della compagna. Quando le due ragazze si incontrarono e si confrontarono, l’uomo comprese che il suo inganno stava per essere smascherato. Fu quello, secondo i giudici, il punto di non ritorno.
Il pomeriggio del 27 maggio, intorno alle 15, Impagnatiello avrebbe maturato la decisione irreversibile di uccidere. Lasciò il lavoro in albergo, tornò a Senago in motorino e attese Giulia a casa, alle 19, non appena la giovane varcò la soglia dell’appartamento, fu assalita e colpita con decine di fendenti. Dopo l’omicidio, Impagnatiello nascose il corpo, tentando di depistare le indagini, fino alla confessione avvenuta giorni dopo.
In primo grado la Corte d’Assise di Milano aveva condannato l’uomo all’ergastolo, riconoscendo le aggravanti della premeditazione, della crudeltà e del vincolo della convivenza. Ma la Corte d’Assise d’Appello ha rivisto parzialmente il quadro, pur confermando la pena massima. Nelle motivazioni depositate, i giudici hanno escluso la premeditazione: non vi sarebbero prove che l’intento omicidiario fosse coltivato da tempo. La somministrazione di topicida nei mesi precedenti, sostengono, era finalizzata a indurre l’aborto, non a uccidere Giulia.
Secondo la Corte, il proposito di togliere la vita alla compagna maturò “irretrattabilmente” solo poche ore prima del delitto, quando l’uomo si sentì umiliato e temette di essere smascherato pubblicamente. Le azioni compiute nel frattempo, il rientro a casa, l’attesa, sono state considerate “neutre”, insufficienti a delineare un agguato preordinato. Vengono inoltre contestate le aggravanti della crudeltà e della convivenza.
Per i giudici d’appello, Impagnatiello non ha ucciso perché Giulia voleva lasciarlo o per il peso delle responsabilità future, ma perché lei lo aveva “sbugiardato dinnanzi a coloro che rappresentavano la sua proiezione pubblica, infliggendogli un’intollerabile umiliazione”. Una motivazione che ridisegna il movente, ma non la pena: resta l’ergastolo, sebbene privo di alcune aggravanti che in primo grado erano state riconosciute.

C’è qualcosa di profondamente ingiusto nelle motivazioni della nuova sentenza sull’omicidio di Giulia Tramontano. La Corte d’Assise d’Appello conferma l’ergastolo, ma ridimensiona la gravità, escludendo la premeditazione e perfino la crudeltà.
Ma come si può essere certi che Alessandro Impagnatiello non avesse maturato da tempo l’intenzione di uccidere anche Giulia, oltre al bambino che portava in grembo? I giudici scrivono che la somministrazione del veleno aveva come unico scopo l’aborto del feto, non l’omicidio della madre.
Ma davvero possiamo dividere così nettamente le due cose? Quel feto era un bambino di sette mesi, non un “problema” da cancellare. E soprattutto, quale certezza scientifica o probatoria consente di affermare che l’avvelenamento non fosse parte di un progetto più ampio di eliminazione? È una sensazione, un’interpretazione. E la sensazione diventa diritto.
Così la giustizia continua a parlare un linguaggio incomprensibile alle persone comuni: cavilli, requisiti cronologici, azioni “neutre”. Ma nella realtà, una donna e suo figlio sono stati uccisi con 37 coltellate. Questo non è il frutto di un impeto improvviso, ma di una volontà deliberata di annientare.
Dire che non c’è stata premeditazione significa alleggerire la responsabilità, come se l’ergastolo bastasse da solo a garantire giustizia. Ma sappiamo bene che in Italia l’ergastolo raramente è davvero ergastolo. E allora togliere le aggravanti diventa il primo passo verso un futuro sconto di pena, verso un’uscita anticipata.
Giulia e il suo bambino non torneranno mai. L’unica cosa che resta è la giustizia, e quando la giustizia smette di parlare la lingua delle vittime, diventa un’ingiustizia essa stessa.