Diana Pifferi, 18 mesi: 6 giorni sola a morire. La madre era lucida

La nuova perizia psichiatrica lo conferma: nessun vizio di mente, Alessia Pifferi sapeva cosa faceva quando lasciò morire la figlia Diana

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Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

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Luglio 2022, Milano. In un appartamento del quartiere Ponte Lambro, la piccola Diana Pifferi, appena 18 mesi, muore di stenti dopo sei giorni trascorsi da sola, senza cibo né cure, in piena estate. La madre, Alessia Pifferi, 37 anni, l’aveva lasciata chiusa in casa per raggiungere un uomo con cui intratteneva una relazione. Prima di andarsene le aveva lasciato un biberon di latte, un piccolo ventilatore e qualche pannolino. Non aveva avvisato nessuno, né parenti né amici. Quando è tornata, il 20 luglio, Diana era già morta da ore.

L’autopsia ha stabilito che la bimba era in condizioni disperate: disidratazione, malnutrizione, tracce di benzodiazepine nel sangue, segno che le erano state somministrate sostanze sedative. E non era la prima volta: solo due settimane prima, la donna l’aveva già lasciata sola in casa per tre giorni, dal 2 al 4 luglio, e ancora dall’8 all’11 luglio. La bambina era sopravvissuta, e questo, secondo l’accusa, ha spinto Pifferi a “provare di nuovo”, confidando che ce l’avrebbe fatta anche per sei giorni.

Arrestata subito dopo il ritrovamento del corpo, Alessia Pifferi ha sempre negato l’intenzione di uccidere, sostenendo che “la mente si era disconnessa”. Nel processo di primo grado, il Tribunale di Milano l’ha condannata all’ergastolo per omicidio volontario aggravato (dalla parentela e dai futili motivi). La sentenza si è basata su una prima perizia psichiatrica che ne aveva accertato la piena capacità di intendere e di volere.

In appello, la difesa ha chiesto un nuovo accertamento psichiatrico, sostenendo che la donna fosse affetta da gravi disturbi mentali e cognitivi. La Corte d’Assise d’Appello di Milano, presieduta da Ivana Caputo, ha incaricato tre esperti, Giacomo Francesco Filippini, psichiatra forense, Nadia Bolognini, neuropsicologa, e Stefano Benzoni, neuropsichiatra infantile, di riesaminare il caso. Dopo sei mesi di lavoro, con colloqui in carcere e test psicodiagnostici, la perizia depositata il 25 agosto 2025 è inequivocabile: Alessia Pifferi era pienamente capace di intendere e di volere quando lasciò morire la figlia.

Gli esperti hanno escluso ogni forma di vizio di mente, rilevando soltanto un’immaturità affettiva e una carenza empatica, non sufficienti a compromettere le funzioni cognitive. “Era in grado di pianificare, prevedere le conseguenze e comprendere che la bambina sarebbe morta”, scrivono i periti. Anche le sue stesse parole, riportate negli atti, lo confermano: “Se solo mia madre, mia sorella e il padre di Diana mi fossero stati davvero vicini, tutto questo non sarebbe accaduto”.

La famiglia della piccola, rappresentata dall’avvocato Emanuele De Mitri, ha accolto con favore la perizia: “È la conferma di ciò che diciamo da sempre: non era malata, era consapevole, arrogante e presuntuosa”. Il 24 settembre la perizia sarà discussa in aula; la sentenza d’appello è attesa per il 22 ottobre 2025. Parallelamente, prosegue il “caso Pifferi bis”, con l’ex avvocata, il suo consulente e alcune psicologhe di San Vittore imputati per aver falsificato test cognitivi con l’obiettivo di farle risultare un quoziente intellettivo da bambina. L’udienza preliminare è fissata per l’11 settembre.

Scrivo spesso di femminicidi. È una scelta consapevole: dare voce a chi non ce l’ha più, restituire dignità a chi è stata uccisa dall’uomo che diceva di amarla. Qualcuno mi accusa di raccontare solo questo, come se volessi edulcorare la realtà, come se volessi negare che esistano madri assassine. Non è così. Lo dimostra questa storia, che mi devasta ogni volta che ne scrivo: Diana Pifferi, 18 mesi.

Mi devasta perché sono madre, ma mi devasterebbe anche se non lo fossi, ma avere avuto figli di quell’età mi rende solo più consapevole dell’orrore che quel piccolo scricciolino debba aver subito. Perché posso immaginare, e il solo farlo mi lacera, una bambina che non cammina nemmeno da sola, lasciata in un lettino, drogata, con un biberon destinato a durare sei giorni, nel caldo di luglio, senza aria, senza acqua. Posso sentire il suo pianto spegnersi lentamente, immaginare le sue manine che cercano aiuto, la gommapiuma del materassino rosicchiata per fame.

Alessia Pifferi non è una madre: è solo una donna che ha partorito. E oggi sappiamo che non era pazza, né incapace. Era lucida. Questo, nella tragedia, è un sollievo: nessuna scappatoia, nessuna infermità mentale dietro cui nascondersi. Pagherà per ciò che ha fatto. Non restituirà Diana, ma le restituirà almeno giustizia. Perché di quella bambina dobbiamo ricordare tutto: il nome, il volto, la voce che non ha avuto. E perché ogni volta che ci chiediamo “come sia possibile”, la risposta deve essere una sola: non lo è, e non deve mai più accadere.