Perché tutti dovrebbero conoscere la storia di Liliana Segre, prima di parlare di lei

È una storia che tutti dovremmo conoscere, affinché gli errori del passato non vengano mai più perpetuati. È la storia di Liliana Segre e del suo viaggio di andata e ritorno dall’inferno

Foto di Sabina Petrazzuolo

Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Pubblicato: 1 Febbraio 2020 13:46Aggiornato: 10 Febbraio 2024 11:00

Aveva solo 13 anni, quando fu strappata dalla sua vita e portata ad Auschwitz: il 30 Gennaio del 1944, salendo a bordo di un vagone al binario 21 della Stazione Centrale di Milano, iniziò il suo viaggio verso l’inferno. Liliana Segre oggi ha 92 anni ed è senatrice a vita della Repubblica Italiana, nominata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È una delle poche sopravvissute alla persecuzione nazifacista. Insieme a lei più di 700 bambini furono portati nei campi di concentramento, ma a tornare a casa furono solo in 24.

Chi è Liliana Segre

Di Liliana Segre, troppe cose sono state dette da chi, evidentemente, non ha usato le orecchie per ascoltare la storia di dolore che la donna ha impresso nella mente e sul suo corpo. Ecco perché chiunque, prima di parlare, dovrebbe leggere la storia di una donna a cui è stata portata via l’infanzia per un viaggio fatto di paura e di dolore che non dava alcuna speranza di ritorno.

Quel viaggio lo ha raccontato sempre, si è impegnata ogni giorno della sua vita affinché nessuno dimenticasse l’orrore della Shoah. Si è opposta a qualsiasi legge discriminatoria nei confronti delle minoranze e ha spronato i giovani a opporsi all’oddio e all’indifferenza. Inoltre si è battuta affinché il tema storico all’esame di maturità non fosse abolito con un solo scopo: non dimenticare.

«Il mio viaggio verso Auschwitz è iniziato tanto tempo fa. Era l’11 settembre 1943. Avvenne allora la mia prima separazione dagli affetti familiari. Quel giorno feci la valigia e partii con il signor Pozzi, sfollato in Val d’Ossola, in Piemonte. In quel piccolo bagaglio misi una specie di quadernone rilegato che si chiamava Album dei Ricordi e in cui le mie amiche avevano scritto un pensierino. Poi un maglione e delle scarpe di ricambio. Quel Pozzi fa parte degli amici eroici. Era venuto a prendermi per mettermi in salvo; io non volevo andare, ma mio padre mi obbligò, fu irremovibile. Il signor Pozzi e la sua famiglia mi tennero nascosta con documenti falsi per oltre un mese, finché poterono. Quando i tedeschi iniziarono a fare controlli sui documenti, mio padre capì che non ero più al sicuro. Rimasi a Castellanza, in provincia di Varese, per tutto il mese di novembre del 1943, a casa di Paolo Civelli, un amico fraterno di papà. Ma anche lì non ero a casa mia. Andammo al confine svizzero come richiedenti asilo, ma ci ricacciarono indietro perché non ci credettero. Per quella guardia di frontiera eravamo dei bugiardi: non era vero che gli ebrei in Italia venivano perseguitati. Così fummo arrestati».

L’inferno e la salvezza

Era il 1943 quando la piccola Liliana dovette separarsi dalla famiglia, costretta alla fuga a seguito delle leggi razziali appena emanate. Nascondigli e rifugi segreti in giro per l’Italia non la salvarono dall’ordine di deportazione che arrivò poi poco dopo.

Finì in carcere insieme a suo padre, prima a Varese e poi a Milano. «Non avevo più nulla, nemmeno gli indumenti di ricambio. Ricordo solo una grande sporcizia e l’impossibilità di fare il bucato. Quando arrivò l’ordine di deportazione, capii che il bagaglio non mi sarebbe più servito. Dal vagone piombato non potevo vedere nulla, solo percepire l’alba e il tramonto, avevo perso la cognizione del tempo non sapevamo dove stavamo andando, dove ci avrebbero portati, intuivo solo che quello sferragliare delle ruote del treno mi allontanava sempre più da casa. Ricordo il dondolio, il buio, i miei stati d’animo. Non avevo più fame né sete. Una volta scesi dal treno ci ritrovammo subito circondati da tanta gente: c’erano i prigionieri del campo che avevano l’ordine di smistare le valigie, c’erano i soldati nazisti che smistavano noi, le guardie con i cani al guinzaglio che abbaiavano».

Era il 6 febbraio del 1944 quando Liliana fu stata deportata ad Auschwitz dal binario 21, costretta a vivere tra il freddo e la desolazione di quei campi che svuotavano giorno dopo giorno il suo corpo e la sua anima. Fu qui che Liliana vide per l’ultima volta suo padre.

Un anno e mezzo trascorso nel campo di concentramento, col numero 75190 tatuato sul braccio sinistro, che ha cambiato per sempre la sua vita. Per la Segre quei giorni fatti di lavori forzati e di prigionia sono lividi del cuore che non scompariranno mai.

Il viaggio verso l’inferno era iniziato e nulla lasciava presagire che qualcosa sarebbe cambiato. Poi ecco la speranza, la luce accesa all’improvviso nel buio più nero.  Mel 1945, con l’avanzata dei russi, i nazisti evacuarono il campo.

Insieme agli altri prigionieri sopravvissuti, la Segre raggiunse il campo di Malchow in Germania in attesa di risalire su un altro treno, quello della liberazione. Nel mese di agosto Liliana tornò in Italia, libera e viva, ma condannata a un dolore che resterà sempre vivo nella sua memoria.