Non sono la rivoluzione nelle cure. Gli anticorpi monoclonali “proiettili” espressamente mirati per andare a colpire il virus Sars-CoV-2 responsabile di Covid-19, potranno diventare un utile supporto ai trattamenti in specifiche categorie di pazienti e non per tutti.
L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), ricorda che ci sono numerosi candidati in studio e ha recentemente approvato per l’uso clinico due di questi farmaci, che comunque, stando ai dati pubblicati, sarebbero particolarmente utili nelle persone che sono all’inizio della loro lotta contro Covid-19, con un calo di accessi e visite in pronto soccorso. Somministrati più avanti, nelle forme gravi di malattia, non avrebbero invece particolari benefici dimostrati. Un’ultima precisazione: non va dimenticato che alcuni studi si riferiscono ad associazioni di monoclonali, per ora non utilizzabili.
Come agiscono gli anticorpi monoclonali
A prescindere da Covid-19, gli anticorpi monoclonali sono stati una delle grandi scoperte della scienza moderna ed oggi sono ampiamente utilizzati in medicina a partire dal trattamento dei tumori e per molte altre patologie. In pratica si tratta di una freccia infallibile, che arriva esattamente al bersaglio e non sbaglia mira, perché è lo stesso obiettivo ad attrarla grazie a “segnalatori” che sono presenti sulla sua parete esterna.
La storia di queste armi “intelligenti” comincia nel 1975 quando sulla rivista Nature appare una ricerca di Cesar Milstein. Lo studioso americano aveva prodotto il primo anticorpo monoclonale, chiamato ibridoma, lavorando sui topi. Milstein aveva infatti “fuso” alcuni linfociti (cellule difensive dell’organismo da cui nascono gli anticorpi) con cellule di mieloma (un particolare tipo di tumore).
La nuova cellula creata, appunto un ibridoma, poteva crescere e riprodursi a grande velocità perché aveva nel suo patrimonio genetico le caratteristiche dell’unità tumorale, ma al contempo conservava la possibilità di produrre l’anticorpo specifico contro il mieloma stesso.
Questo nuovo ed unico clone cellulare – da cui il termine anticorpo monoclonale – poteva quindi produrre anticorpi in grande quantità, mirati esattamente sulle caratteristiche biologiche della cellule di mieloma. E quindi attivi solo nei suoi confronti.
Da allora la ricerca ha fatto grandi passi avanti, sia nei sistemi di produzione degli anticorpi monoclonali, che ormai vengono sintetizzati evitando del tutto o limitando al minimo grazie alla biologia molecolare il passaggio nei topi, sia nelle applicazioni pratiche di questi preparati.
Quelli per Covid-19 sono anticorpi sintetici fabbricati in laboratorio e ottenuti da quelli naturali prodotti dai pazienti immunizzati. Si legano alla proteina che il virus usa per entrare nelle cellule, cioè la proteina Spike che abbiamo imparato a visualizzare come “spuntone” sulla superficie del virus, bloccandone l’ingresso nella cellula ed impedendo la replicazione. In pratica, quindi, si comportano alla stregua degli anticorpi che si sviluppano nell’infezione naturale o dopo la somministrazione del vaccino.
Quando servono gli anticorpi monoclonali in caso di Covid-19
Per essere altamente efficaci, gli anticorpi monoclonali specifici per il virus Sars-CoV-2 andrebbero somministrati nei primissimi giorni dell’infezione, quando la replicazione del virus è più massiccia. L’ideale sarebbe impiegarli non oltre 10 giorni da quando è stato riscontrato il coronavirus e comunque prima che il soggetto sia andato incontro ai sintomi più gravi dell’infezione.
Al momento vanno somministrati in ospedale perché necessitano di un’infusione lenta e prolungata cui deve far seguito un periodo di osservazione: per questo rendono necessario quanto meno l’accesso del paziente in nosocomio. Per quanto riguarda le indicazioni, da considerare visto anche il costo del trattamento, in termini generale appaiono particolarmente utili (sempre mantenendo presente quanto detto sopra) nei soggetti che presentano un elevato rischio di complicazioni gravi in caso di Covid-19, come ad esempio i soggetti immunodepressi, che soffre di diabete o gli obesi o chi soffre di grave insufficienza renale.
Al momento quindi si tratta di un’opzione terapeutica in più per chi non è ricoverato e pur con malattia lieve/moderata, potrebbe essere ad alto rischio di sviluppare una forma grave di Covid-19. Ad oggi, va sottolineato, non si tratta quindi di una cura standard ma di una potenziale arma in più per combattere Covid-19, quando ovviamente esista l’indicazione al trattamento.