C’è qualcosa di straordinariamente inspiegabile nel potere che sa contenere un sorriso, perché ormai lo abbiamo imparato che la felicità sa essere contagiosa. Quello che non sapevamo, però, è che anche la tristezza ha la medesima capacità di trasmissione e di infezione. Perché è solo così che si può spiegare l‘infelicità che appartiene a un Paese intero, il nostro.
Sì, noi italiani siamo tra le popolazioni più tristi del continente. E non lo dicono solo i nostri occhi che ogni giorno incrociano sguardi persi, vuoti e tristi. Ma lo dicono i fatti, anzi i dati, che confermano che l’Italia è il secondo Paese più triste in tutta l’Unione Europea. Prima di noi, solo la Repubblica Turca di Cipro del Nord.
Il motivo di una posizione in classifica così disarmante è da attribuire al lavoro. Ancora una volta, è evidente, che la professione, o l’insoddisfazione generata da questa, ci rende schiavi di un sentimento che non fa bene al cuore né all’anima. Ancora una volta è chiaro che lasciamo che la nostra vita venga condizionata totalmente dal lavoro.
La tristezza ci appartiene ed è colpa del lavoro
Sarà che siamo cresciuti con il mito della produttività, e che nel tempo abbiamo sviluppato quella sindrome che gli esperti chiamano oziofobia e che fa riferimento alla paura quasi ossessiva di non fare niente, e sarà pure che ci siamo crogiolati nella grande illusione che più siamo impegnati, più valiamo come persone. Fatto sta che tutto questo ci ha portato a conquistare un titolo deprimente che ci fa riflettere, quello di essere il secondo Paese più triste dell’Unione Europea.
A confermarlo è stata un’analisi condotta dalla società di consulenza Gallup che nel suo report State of the Global Workplace 2022, ha fatto emergere questa amara verità che riguarda tutti. La popolazione italiana, infatti, è quella che più si ritrova ad affrontare sentimenti di tristezza nella quotidianità. Questi sono poi accompagnati da rabbia, stress, impotenza e senso di fallimento.
Cos’è che ci fa sentire così è presto detto, si tratta del lavoro. Dall’analisi emerge non solo l’insoddisfazione generale dei dipendenti nei confronti del proprio lavoro, delle mansioni e delle attività svolte, ma anche la preoccupazione nei confronti dell’attuale situazione del mercato di riferimento.
Secondo lo State of the Global Workplace 2022, il 27% degli italiani intervistati si trova a condividere quotidianamente sentimenti di tristezza provocati proprio dalla situazione lavorativa. Solo il 4% della popolazione, invece, si è detta soddisfatta del proprio lavoro.
Il lavoro nobilita l’uomo, ma non è l’unica cosa che conta
La posizione dell’Italia, che guadagna il secondo posto tra i Paesi più tristi d’Euroa all’interno dello State of the Global Workplace 2022, può trasformarsi in uno spunto di riflessione individuale e collettivo per pensare a un nuovo modo di approcciarsi al lavoro.
Perché se è vero che il mito della produttività ci ha costretti a ridefinire il nostro valore sulla base del ruolo che ricopriamo in ambito professionale, è anche vero che questo non può essere l’unico metro di giudizio da utilizzare per definirci. E non può esserlo soprattutto adesso che stiamo vivendo un momento di forte crisi che nonostante gli studi, l’impegno e il talento, speso non ci permette di raggiungere gli obiettivi che ci eravamo prefissati.
Perché va da se che se viviamo con la credenza che è il lavoro a definire il nostro valore e la nostra identità, quando questo viene a mancare, o quando non ci soddisfa, noi perdiamo ogni certezza.
Dobbiamo quindi liberarci di questa idea che per valere qualcosa, agli occhi degli altri e più in generale a quelli della società, dobbiamo sacrificare il nostro tempo e tutte le nostre energie per il lavoro.
Perché è vero che lavorare ci nobilita, e questa è una verità che nessuno potrà mai mettere in discussione, ma non è questa l’unica cosa che conta.