Israele-Hamas, la guerra sul corpo delle donne: perché sono le prime vittime

Sono le storie di Noa Argamani, Shani Louk, Yaffa Adar, Vivian Silver e molte altre. Sono le storie delle donne al centro della guerra

Foto di Giorgia Prina

Giorgia Prina

Lifestyle Specialist

Web Content Creator e Internet addicted che ama la complessità del reale. La passione più grande? Sciogliere matasse con occhio critico e ironia.

Sono nomi nei titoli dei giornali. Sono sagome insanguinate che compaiono nelle cruente foto che fanno il giro del mondo. Sono appelli disperati dei famigliari sui social network. Sono pienamente territorio e campo di battaglia. Sono i corpi delle donne coinvolti in una guerra che diciamo “ricominciata”, ma che in realtà non si è mai fermata. Quello tra Israele e Palestina è uno scontro che occupa da più di 70 anni le pagine più tristi e complicate della storia mondiale. Una guerra che alla precisione chirurgica dei droni pilotati da remoto, all’altissimo livello di tecnologia in grado di colpire con esattezza il campo di battaglia, affianca stragi di civili da ambo le parti.

Così ai razzi di Hamas al rave nel deserto nel Sud di Israele si contrappongono i bombardamenti nei mercati centrali e nelle scuole della Striscia di Gaza. Giungono a noi le storie, le foto e i video di volti spaventati, furiosi e esanimi. Una battaglia che si combatte anche attraverso i mezzi di comunicazione, con le parti che cercano di veicolare la propria narrazione, la propria importante verità. Ma, in tutto questo, emerge la centralità delle immagini delle ragazze prese come ostaggi come potentissima giustificazione della violenza in atto.

Corpi di donne e guerra

La forza violenta della guerra, anche nello scontro tra Israele e palestinesi, non può non ricordarci come la sua furia costituita da odio ereditario, soprusi reciproci, e sopraffazioni inferte e subite da ambi le parti sia in grado di scaricarsi, in primo luogo, sul corpo delle donne: violato, catturato e stuprato. Attacchi diretti al cuore di una comunità, alla sua capacità riproduttiva e al suo diretto futuro. Un colpo alla memoria di un popolo e alla sua possibilità di trasmettere cultura di generazione in generazione.

Come evidenzia per Il Manifesto Francesco Stradari prevale in Italia “una lettura di questo orrore che si può definire essenzialista e razzializzata: come già per la violenza jihadista, essa tende a rappresentare le atrocità sul corpo delle donne come prodotto dell’Islam, della supposta cultura tribale degli arabi e dei nomadi del deserto”. Forse, ci ricorda, “abbiamo dimenticato gli stupri di massa sulle donne musulmane in Bosnia e quelli, recentissimi, nel Tigray etiope. Cerchiamo di distogliere lo sguardo da quanto succede ad Haiti, governata da gang e milizie. L’Occidente democratico ha tollerato e tollera, nel Levante, lo sfregio dei corpi delle militanti curde da parte degli alleati turchi, così come quello delle combattenti armene da parte degli azeri”. Ci ricorda con forza la storicità del corpo femminile come campo di battaglia e strumento di conquista: il Ratto delle Sabine. Ancora lo ricordiamo “come atto fondativo, l’umiliazione violenta del corpo femminile reca con sé il codice invariabile del discorso militarista, patriarcale e disumanizzante: il nemico non è abbastanza virile per proteggere le sue donne, non merita riproduzione”.

Le donne rapite: da Noa a Shani, Da Yaffa Adar a Vivian Silver

Sono così donne, giovani e anziane, ad essere nelle mani dei miliziani. Come Noa Argamani, separata dal fidanzato al tragico rave nel deserto e rapita da due combattenti in motocicletta. C’è la giovane tatuatrice tedesca Shani Louk, caricata mezza spogliata dei suoi abiti e con le gambe spezzate sul pick up degli assalitori che ne oltraggiano ilcorpo, come mostrato in un video ripreso dagli stessi militanti di Hamas. Proprio queste immagini hanno permesso alla madre, Ricarda Louk, di riconoscere la figlia. Ma c’è anche Yaffa Adar, di ottantacinque anni, portata via dal suo villaggio (e poi liberata insieme al suo badante).

Tra le mani di Hamas ci sono anche Doron Asher, con sua madre e le sue bambine, Raz e Aviv, di 4 e 2 anni e mezzo. Il marito ha scoperto dove si trovano (a sud della Striscia di Gaza) grazie alla geolocalizzazione del cellulare. C’è poi anche Kim Damti, una ragazza irlandese-israeliana di 22 anni, anche lei si trovava al rave in cui sono morte almeno 260 persone.

E c’è anche Vivian Silver, 74 anni, leader del movimento Women Wage Peace, ora nelle mani dei miliziani. Si tratta di un’attivista israelo-canadese che viveva al confine di Gaza in Israele e che solo lo scorso 23 settembre aveva lanciato un appello alle Mamme per la pace: “Non c’è momento migliore per dare voce alla richiesta delle madri israeliane e palestinesi, per porre fine al nostro conflitto decennale”.