Lo struggente racconto del caposcorta di Borsellino, salvo per un testa o croce

Nicola Catanese, vice-sovrintendente di Polizia uno dei capiscorta di Paolo Borsellino, racconta la storia struggente della tragedia che ha sfiorato

Trent’anni. Sono passati trent’anni da quel 19 luglio 1992: era una pigra giornata estiva a Palermo, una domenica distinta dai classici ritmi rallentati dal caldo, con un cielo azzurro impegnato a osservare i bagnanti sulla spiaggia. Un cielo che sembra, invece, aver distolto lo sguardo da quanto stava per accadere a Paolo Borsellino, assassinato alle 16.58 in via D’Amelio insieme alla sua scorta.

Già, la scorta: cinque persone che amavano Paolo Borsellino, cinque ombre, cinque angeli benevoli che non gli toglievano gli occhi di dosso. Ma chi ha deciso che quel giorno a essere in servizio fossero proprio loro? A rispondere è Nicola Catanese che, ai tempi, era uno dei capiscorta del magistrato. E la risposta è dura, secca: a scegliere è stato il caso.

Nicola Catanese e il testa o croce che gli salvò la vita

In una recente intervista al Corriere della Sera, Catanese ha raccontato qualcosa che da trenta lunghi anni lo insegue e lo tormenta. Sì, perché quel 19 luglio lui e la sua squadra avrebbero dovuto scortare Paolo Borsellino da Villagrazia di Carini, dove stava passando qualche giorno di relax insieme alla moglie Agnese e ai figli, fino in via D’Amelio, residenza della madre di Borsellino, dove poi è avvenuta la strage.

Il caso, però, non ha voluto. Perché? Perché il giorno dopo, Nicola Catanese avrebbe dovuto festeggiare il compleanno della fidanzata (poi moglie). Sulle prime aveva deciso di non farlo. Fu una telefonata, piena d’amore, a fargli cambiare idea: era dispiaciuto per la sua Sofia, che non avrebbe potuto vederlo nel giorno dei festeggiamenti.

L'esplosione che ha ucciso Paolo Borsellino

Così, Catanese andò dai suoi colleghi della scorta e chiese loro se avessero voluto smontare prima, facendosi dare il cambio dalla squadra del turno pomeridiano che, invece di aspettare in via D’Amelio, li avrebbe raggiunti direttamente a Villagrazia di Carini. La squadra era divisa. E fu così che venne lanciata la monetina: Croce. Dopo pochissimo, Paolo Borsellino venne prelevato da Agostino Catalano, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Antonio Vullo.

Il cambio turno e la morte di Paolo Borsellino

Quel cambio di turno, ancora oggi, fa sì che l’ex caposcorta Nicola Catanese si faccia delle domande. Cosa sarebbe successo se, come preventivato, la scorta si fosse scambiata in via D’Amelio? Le due pattuglie guidate da Agostino Catalano e Claudio Traina avrebbero notato prima la Fiat 126 imbottita di tritolo parcheggiata proprio di fronte alla destinazione del giudice?

Di fatto, non è dato saperlo. E in verità, considerando la quantità di macchine parcheggiate in una via così stretta (nonostante fosse stata avanzata più volte alla Questura di Palermo la richiesta di vietare il parcheggio di qualsiasi veicolo davanti alla casa), è più probabile che se quel cambio turno non fosse avvenuto si sarebbero contati molti più morti.

L'auto distrutta del giudice Paolo Borsellino

Sempre nell’intervista al Corriere, Catanese ricorda con grande struggimento e dolore il momento in cui Paolo Borsellino gli disse una delle frasi che più è rimasta nella storia del giudice assassinato: «Sono dispiaciuto, perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me e mi dà angoscia che possa colpire voi».

Eppure, nonostante la consapevolezza che la fine di Borsellino fosse ormai vicina, nessun membro della scorta lo abbandonò, mai. Anche se ognuno di loro sapeva che era una lotta contro i mulini a vento: stavano cercando di evitare qualcosa che, alla fine, li avrebbe travolti. E così è stato.

Paolo Borsellino, trent’anni di domande

Non sono solo le domande di Nicola Catanese, però, a sollevare tanti, tantissimi dubbi su quanto accaduto quel 19 luglio 1992. Dopo tanto tempo, ci sono ancora troppi punti interrogativi, troppi quesiti su ciò che accadde. La strage era evitabile? E perché, pur sapendo che Borsellino aveva ormai i giorni contati, non si fece di più per salvarlo?

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone

E ancora, che fine ha fatto la sua agenda rossa? Perché la sua borsa, portata via dall’allora capitano Giovanni Arcangioli, non la conteneva più quando è stata restituita? Solo una cosa è certa: continuare a indagare e non tacere è l’unica strada per rendere fieri sia Paolo Borsellino che Giovanni Falcone. Le cui idee, ancora oggi, camminano sulle nostre gambe.