La locuzione di origine anglosassone, revenge porn, è ormai tristemente entrata a far parte della nostra quotidianità, complice la presenza sempre più massiccia di episodi di “vendetta porno” ai danni di moltissime vittime, prevalentemente donne. Il revenge porn, come il nome stesso suggerisce, associa la pornografia alla parola vendetta aprendo una serie di scenari drammatici che colpiscono inconsapevolmente le vittime. Si tratta di un reato molto giovane che riguarda soprattutto i minori e, come anticipato, le donne.
Un fenomeno che, vista la sua portata non può più essere sottovalutato; che vìola la sfera intima e psicologica delle vittime, mietendo moltissimi danni. Sono tante le storie che ci giungono all’orecchio, donne che hanno visto diffondere le loro immagini senza consenso, o peggio, sono state fotografate e filmate a loro insaputa. Alcune di queste, purtroppo, sono balzate alla cronaca per il tragico epilogo, ragion per cui non possiamo più chiudere gli occhi davanti al reato di revenge porn.
Per fare chiarezza, per comprendere come reagire e come difendersi, DiLei ha interpellato un’esperta del settore, l’avvocato penalista Alessia Sorgato, legale di riferimento di centri antiviolenza sportelli anti-stalking e onlus dedite alla protezione di donne e bambini.
Cos’è il revenge porn
Ecco cosa ci ha spiegato nel dettaglio l’avvocato Sorgato: «Lo chiamano stupro virtuale e in tanti altri modi che enfatizzano le sue caratteristiche principali: ha contenuto erotico e un sottofondo violento, almeno psicologicamente, e si aggira prevalentemente in rete. Si tratta di un comportamento vile, spregiudicato ed oggi illegale. Il 9 agosto 2019 è entrata infatti in vigore la legge n. 69 – altrimenti detta “Codice Rosso” – che ha, tra l’altro, introdotto una nuova fattispecie delittuosa molto attesa dal mondo giuridico, specialmente quello di impronta vittimologica. Lo ha chiamato “diffusione illecita di contenuti sessualmente espliciti”, punendolo con la pena della reclusione da uno a cinque anni. Detto in modo più colloquiale e sintetico, possiamo definirlo l’azione di chi condivida con una o più persone immagini a contenuto erotico che dovevano rimanere intime, segrete».
A poco più di un anno dall’applicazione della legge di reato, cerchiamo di capire che consapevolezza hanno i più giovani rispetto al revenge porn: «Secondo analisi al momento non complete, di questo reato risultano spesso vittime (ed altrettanto spesso autori) i giovani dai 13 ai 19 anni di età: pare che oltre il 65% dei ragazzi in età scolare ammette di utilizzare il sexting (ossia l’invio e lo scambio di immagini sessualmente esplicite) e se per la maggior parte dei soggetti di sesso femminile ciò è ammesso per lo più all’interno di una “relazione”, l’80% di quelli di sesso maschile prescinde dal rapporto affettivo».
L’avvocato Sorgato ci ha spiegato che la sensazione, piuttosto concreta, è che non solo i giovani ignorano il rischio di un’incriminazione, ma non si rendono conto della gravità della situazione sia dal lato attivo (ossia se dopo aver ricevuto l’immagine la divulgano) sia da quello passivo (quindi quando siano i/le mittenti).
Come possiamo difenderci dal revenge porn
«Il punto nodale della questione è il cosiddetto consenso – ossia non esiste reato se la vittima sia d’accordo che le sue immagini siano divulgate, ma su questo bisogna intendersi bene: per molto tempo, quando l’articolo non esisteva ancora, l’autorità giudiziaria ha celebrato i processi per revenge porn sulla scorta di altri reati, come gli atti persecutori e la pedopornografia, e si è fatta molta confusione tra consenso a che una certa persona riceva quelle immagini intime (sul quale ovviamente c’è piena libertà in capo a chiunque) e consenso a che questa persona poi le giri ad altri», ci spiega l’avvocato Sorgato.
«Esistono pronunce, anche tristemente note, avendo comportato il suicidio della persona ritratta, in cui si è sostenuto che aver concesso di venir filmata durante atti sessuali e anche di consegnare ad alcune determinate persone il video comportasse automaticamente il permesso a pubblicarlo urbi et orbi su canali comunicativi di massa come YouTube o Facebook. Oggi il nuovo reato punisce solo chi divulghi, quindi, senza il consenso della persona rappresentata, ossia di chi si vede in quelle foto o in quei video, che al contrario deve essere dimostrato proprio avendo ad oggetto la divulgazione stessa». Ricordiamo i casi tristemente noti di Tiziana Cantone, Carolina Picchio, morte suicide a causa del revenge porn.
«Il primo consiglio – incalza l’avvocato – è quindi chiarire bene se stiamo acconsentendo che quella certa persona che ci vede in intimo, ad esempio, non inoltri ad altri quella nostra immagine».
Cosa succede se qualcuno minaccia di diffondere immagini o video
Cosa può fare in questo caso la vittima? L’avvocato Sorgato ci ha spiegato come intervenire: «Il consiglio più spiccio è di rivolgersi immediatamente ad una persona esperta, che sia la Polizia Postale (mi raccomando, non altre Forze dell’Ordine, sono loro quelli specializzati), un’associazione o un legale ferrato in materia. I rimedi sono infatti molti e possono essere differenziati a seconda del tipo di autore, di rapporto con la vittima e così via. Mai cedere al ricatto, perché la contropartita offerta (altre immagini, il più delle volte; rapporti sessuali o denaro, nel caso delle c.d. sextortions, le estorsioni sessuali) quasi mai viene ottenuta e si innesca un meccanismo circolare in cui la minaccia continuerà».
Segnalare il contenuto pubblicato perché venga rimosso è utile?
«Tutti ormai sanno che, se la foto o il video sono già stati pubblicati, si può usare il tasto “Segnala” e chiederne la rimozione al social. Se questo non si attiva entro 48 ore, si può scaricare dal sito del Garante della Privacy l’apposito modulo e domandare che il Garante si attivi sulla piattaforma. Se passano altre 48 ore inutilmente, si può adire l’autorità giudiziaria. Va però ben tenuto presente che, in tutti i casi, per la querela abbiamo sei mesi di tempo da quando scopriamo che i nostri contenuti intimi girano nel web o anche solo in chat. Se intendiamo sporgerla, o ci stiamo ancora pensando, le “prove” informatiche dell’avvenuta commissione del reato non possono venir rimosse in maniera definitiva e non tracciata, per cui io consiglio di rivolgersi a un consulente, o ad una associazione no profit».
La diffusione di immagini è un reato denunciabile e punibile
«Il nuovo articolo 612 ter c.p. comprende cinque tipologie di azione vietata: inviare, consegnare, cedere, pubblicare o diffondere. Con una scelta assolutamente condivisibile, il legislatore ha preferito utilizzare espressioni di uso comune, che non necessitano di particolari attività di interpretazione. Le foto o i video a cui si allude possono essere trasmessi in qualsiasi modo, dalla busta affrancata al messaggio email sino alle pubblicazioni più generiche sui social media o le chat di whatsapp, Telegram e così via. Per rientrare in questa categoria devono risultare “sessualmente espliciti”, quindi coinvolgere nudità, atti sessuali, erotismo e pornografia – prosegue l’avvocato – Il legislatore ha suddiviso il reato in due tipologie diverse, che ha distinto anche graficamente dedicando a ciascuna un comma dell’articolo: il primo punisce chiunque, dopo aver realizzato o sottratto le immagini, compie una delle cinque azioni sopra ricordate. Il secondo comma applica la stessa pena a chi fa altrettanto dopo aver ricevuto o comunque acquisito le foto o i video».
Ma entriamo nel dettaglio per capire qual è la differenza. «Nel primo comma abbiamo i soggetti che chiedono e ottengono l’invio di selfie autoerotici, o che si mettono davanti alla web cam e filmano, oppure ancora che, conoscendo le password di accesso ai devices della vittima, riescono a prelevare quelle immagini clandestinamente. Nel secondo comma vengono puniti di fatto gli “inoltra”: possiamo immaginare qui coloro che, partecipando ad una chat o ad un gruppo, ricevano quei contenuti e a loro volta li inviino, diffondano, pubblichino e così via. In questa ipotesi, però, perché possano essere puniti questi – chiamiamoli così per semplicità – revenger di secondo, grado bisogna dimostrare che hanno agito al fine di recare nocumento, ossia per danneggiare il soggetto ritratto».
«La relazione affettiva, sia stata un matrimonio o una convivenza o un rapporto amoroso o di amicizia, è un’aggravante, e questo è intuitivo visto che proprio il partner (o ex tale) con maggiori probabilità dispone di quel genere di materiale per averlo, appunto, girato o scattato, o per aver avuto accesso a dove custodito (immaginiamo un computer lasciato acceso mentre si va a fare la doccia…)».
Il revenge porn è quindi a tutti gli effetti un delitto molto grave che può portare serie conseguenze psicologiche a chi lo subisce. L’avvocato Alessia Sorgato, che ringraziamo per la disponibilità, suggerisce di avere consapevolezza e cautela: «Ci vuole sempre molta prudenza a confidare nel rispetto da parte di altri della nostra intimità. Imparate a difendervi!».