Un rene per tornare a vivere, questa è la nostra favola.

Il 29 dicembre 2022 Luigi ha ricevuto il regalo più grande, un rene, per dire addio alla dialisi e tornare a vivere. Sembra una favola. Lo è

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Oggi è il 1 febbraio 2023 ed io care amiche e amici di DiLei sono finalmente tornata per restare. In tanti mi avete scritto in questi mesi di lontananza chiedendo il motivo della mia assenza, se fosse una scelta personale o una scelta editoriale, e adesso posso finalmente rispondervi. Purtroppo con il peggioramento della salute di mio marito ho scelto di dedicare a lui e alla mia famiglia il tempo a disposizione, che non è mai stato abbastanza. Siamo passati attraverso un rigetto con un’emorragia improvvisa che poteva essergli fatale, poi in una spirale fatta di ricoveri, ritrovandoci un mese lontani da casa, con una sospetta ischemia transitoria che ci ha costretti a riscrivere la traiettoria delle nostre esistenze. Poi piano piano ci siamo abituati ai nuovi ritmi della dialisi, perché sapete qual è la verità? Che ci si abitua a tutto pur di sopravvivere, anche a quello che fa male. Si impara a vivere in attesa, in attesa di quella chiamata che ti darà una seconda opportunità. Il trapianto.

Il 2022 è stato davvero il nostro annus horribilis, quello che in una notte ha cambiato la prospettiva della nostra vita, quello che ci ha riportati indietro nel tempo, quello che ci ha legato indissolubilmente a una macchina lavasangue, tre volte alla settimana, dodici ore ogni sette giorni, quarantotto ore al mese, cinquecentosettantasei ore all’anno. Eppure ad un certo punto lo abbiamo accettato, abbiamo accolto quei giorni attaccati alla dialisi come quello che realmente erano, l’unica terapia per continuare a vivere, per continuare a camminare su questa terra in modo dignitoso. Abbiamo organizzato la nostra vita in base a quello che ci potevamo permettere, e le nostre vacanze sono diventate dei micro weekend al mare, ma abbiamo continuato a sperare che un giorno saremmo tornati ad essere liberi. A maggio siamo rientrati in lista attiva per il trapianto di rene, ma abbiamo cercato di non pensarci troppo, perché a volte la speranza uccide più di un sogno infranto.

Le statistiche parlavano di un’attesa minima di un anno e mezzo e massima di dieci per la nostra nuova nocciolina, quindi non mi facevo illusioni, cercavo di passare le giornate concentrandomi su quello che avevo, e non su quello che avrei potuto avere. Ogni tanto affrontavo l’argomento con Luigi e lui mi rispondeva sempre così: «L’idea che qualcuno debba morire per ridarmi una vita normale mi distrugge, come posso vivere nella speranza della morte di qualcun altro?». Non so se questo sia il modo corretto per prepararsi al trapianto, so però quello che queste parole raccontavano dell’uomo che ho sempre amato e che amerò per sempre, la sua levatura come persona e il suo cuore grande, perché a nulla valevano le mie rimostranze, il mio sottolineare che quell’uomo o quella donna non morivano a causa sua, ma che donando avrebbero dato un senso alla loro dipartita, perché lui si sentiva comunque in colpa anche solo all’idea.

E mentre quelli intorno a noi ci raccontavano le storie di amici trapiantati ben prima dell’anno e mezzo statistico, noi ci preparavamo a festeggiare il nostro primo Natale tutti insieme a casa, dopo cinque anni in cui gli ospedali ci avevano impedito di farlo, regalandoci ricoveri sempre a ridosso di quella data, e già quello ci sembrava un traguardo immenso. Non potevamo davvero immaginare che cosa il destino avesse in serbo per noi. E così accade. La sera del 28 dicembre Luigi esce dall’allenamento e fa quello che ha sempre fatto, mi telefona. Sono le 22:40, e io lo accompagnerò con la mia voce per ogni chilometro della strada di ritorno, solo che dopo tre minuti mi dice: Irene ho un’altra telefonata da un numero che non conosco, fammi rispondere, ti richiamo subito.

Ho avuto un brivido, perché me lo sentivo, sentivo che quella era “la telefonata”. Dopo un minuto mi richiama. «Irene era la dottoressa, a Verona è in arrivo un rene per me. Domattina devo andare in reparto a Dolo, fare due ore di dialisi e poi andare in ospedale». Io non ho più capito nulla, non ho sentito più niente. Un rene. Per noi. Solo per noi. Una persona che nel momento più brutto della sua vita ha fatto il gesto più bello di tutti. Ha donato una parte di sé per permettere a uno sconosciuto di rinascere. Sono andata al piano di sopra dai miei figli, ho comunicato loro la notizia e ci siamo abbracciati piangendo, e quando il loro papà è arrivato a casa, hanno pianto anche con lui. Di gioia. Come sono belle quelle lacrime, sanno di vita, sanno di amore, sanno di famiglia.

Abbiamo passato una notte insonne perché adesso il futuro era a portata di mano, a novantotto chilometri di distanza, eh sì c’era anche la paura, che sapore avrebbe avuto la nostra felicità? La mattina dopo aver accompagnato Luigi a fare dialisi, sono andata a fare la spesa per i miei “bimbi”, visto che sarei rimasta a dormire in un B&B per due giorni, poi alle 10 in punto lo sono andata a riprendere. L’ho guardato uscire da quel reparto con gli occhi gonfi, lui e la sua camminata rallentata dalla stanchezza, lui e la piccola borsa con all’interno le ciabatte, lui con il suo sguardo scuro, ma fiero, ho contato i passi che ci dividevano con il cuore ricolmo di speranza, pensando che quella, forse, sarebbe stata la sua ultima seduta di dialisi.

Per sessanta minuti siamo rimasti quasi in silenzio, a fare da colonna sonora ai pensieri la nostra playlist preferita, con la canzone dei Thirty seconds to Mars ripetuta quasi in loop: It’s the moment of truth, and the moment to lie, the moment to live and the moment to die, the moment to fight, to fight, to fight. Sembrava davvero scritta per noi, era arrivato il momento di combattere con tutte le nostre forze. Appena arrivati all’ospedale Maggiore di Borgo Trento ci hanno separati, io fuori, in sala d’attesa, lui nel reparto per le ultime analisi, per un tempo che non sembrava passare mai. Poi si avvicina il chirurgo, il professor Boschiero e mi comunica che alle 16:30 scenderanno in sala operatoria, che l’intervento durerà all’incirca tre ore, di tornare per le 19:30 che mi daranno le prime notizie.

Ed io così ho fatto, sono tornata in albergo con l’adrenalina in circolo, provando a dormire, ma riuscendo solo a scrivere messaggi ai miei vari gruppi di supporto su whatsapp, ascoltando “La leva calcistica del 68” di De Gregori, per tirare fuori tutte le lacrime che avevo dentro, perché il pianto per me è sempre stato una forma di salvezza, la catarsi del mio corpo e della mia anima. Mi sono fatta una doccia veloce e mi sono rivestita al volo, e poi mi sono ritrovata di nuovo seduta lì, davanti alla porta della terapia intensiva, esattamente un anno dopo il rigetto e l’emorragia, ma questa volta, diversamente dalla precedente, quando aspettavo la vita a braccetto con la morte, aspettavo la rinascita, aspettavo di tornare a vivere. Con un sorriso grande così.

Poi all’improvviso si apre la porta e il dottore si avvicina, e io, nonostante avesse la mascherina ancora sul viso, intravedo gli angoli della sua bocca, e sono all’insù, mi guarda negli occhi e mi dice: «Signora il trapianto è perfettamente riuscito, l’organo era bellissimo e ben vascolarizzato, ha ripreso a funzionare subito. Adesso dobbiamo aspettare i prossimi giorni, ma, diciamo che l’inizio è dei migliori, se si mette appoggiata qui, appena lo riportano su glielo facciamo vedere per qualche minuto». Avevo voglia di urlare dalla gioia, e mi sono dovuta trattenere dal saltare al collo del professore per abbracciarlo, sono riuscita a rispondere solo “Grazie”, perché poi la voce si è rotta per l’emozione. Ho atteso un’altra ora e mezza poi ho sentito la voce delle infermiere chiamarmi: «Signora è la moglie di Pagana? Venga che glielo facciamo salutare».

E io sono corsa nella stanza di passaggio prima che entrasse nella terapia subintensiva, aveva una coperta isotermica gialla metallizzata sopra, una serie di tubi e tubicini che gli uscivano dal corpo, ma aveva già le guance rosa, e il viso disteso, lui mi ha guardata e mi ha detto: «Adesso vai a casa a riposarti, che ne hai bisogno». Cioè capite lui torna da un trapianto di cinque ore e cosa fa? Si preoccupa per me, capite sì perché lo amo così tanto. No, non mi sarei mai aspettata di finire l’anno in ospedale, non mi sarei mai aspettata di ricevere il regalo più bello di tutti dopo un anno che era sembrato il più brutto di tutti, era stato il famoso colpa di coda, quello che sembra impossibile.

Eppure adesso siamo qui. Sono passati trentadue giorni dall’operazione, Luigi è stato dimesso dopo due settimane, la nuova nocciolina è talmente brava e gigante che toccherà trovargli un altro nomignolo, abbiamo detto addio alla dialisi e stiamo tornando, piano, piano, e, finalmente, alla normalità. Cavoli se ce lo siamo meritato. E quest’estate poi il mister sarà pure costretto a mantenere il giuramento, rinnovare le promesse e sposarmi sulla spiaggia, con il vestito indossato da Stephanie Seymour nel video della canzone “November rain” dei Guns N’ Roses, e i nostri figli a portarci le fedi. Anche quelli pelosi. Il mio Mister ha vinto il campionato più bello di tutti. Quello della vita.

E ho finalmente scoperto il peso della felicità, 450 grammi, quelli del nostro nuovo rene.

PS. Il mister ha ripreso gli allenamenti con la sua meravigliosa squadra, Lo Sporting Altamarca. Sono sesti in classifica, io ho finito di scrivere il libro che uscirà a fine marzo edito da Feltrinelli, e non ringrazierò mai abbastanza tutta la redazione di DiLei per avermi aspettata. E un grazie di cuore al reparto dei trapianti di rene del dottor Boschiero dell’ospedale di Borgo Trento di Verona per averci regalato la vita. Vi voglio tanto bene.