Paolo Mendico morto di bullismo a 15 anni: le denunce rimaste inascoltate

Anni di segnalazioni e richieste di aiuto, ma nessuna protezione. Ora la Procura indaga per istigazione al suicidio

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Irene Vella

Giornalista, Storyteller, Writer e Speaker

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

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Paolo Mendico aveva quindici anni e un sorriso timido che spesso nascondeva dietro i capelli biondi, portati lunghi come piaceva a lui. Amava suonare il basso, la batteria, e andare a pesca con il padre. Piccole passioni che gli davano respiro in un quotidiano segnato da prese in giro, esclusioni e aggressioni. L’11 settembre 2025, poco prima di cominciare un nuovo anno scolastico, Paolo ha deciso di togliersi la vita. A trovarlo è stato il padre, nella cameretta di casa a Santi Cosma e Damiano. Una tragedia che oggi interroga non solo i familiari, ma l’intera comunità.

La storia di Paolo è tracciata in anni di denunce e segnalazioni rimaste senza risposta. Tutto comincia già alle elementari, all’istituto “Guido Rossi”, quando i genitori presentano una denuncia ai carabinieri per le prime aggressioni subite dal figlio. Da lì in avanti si accumulano almeno quindici segnalazioni tra incontri ufficiali con dirigenti scolastici, verbali, chat con altri genitori e richieste di protezione. Nonostante ciò, secondo la famiglia, i servizi sociali non sono mai stati attivati.

Trasferito alle medie all’istituto comprensivo “Alfredo Fusco” di Castelforte, le cose non cambiano. I compagni continuano a colpirlo proprio dove era più fragile: la corporatura minuta, la sensibilità, i capelli troppo lunghi. “Paoletta”, “femminuccia”, “Nino D’Angelo”: epiteti che diventano marchi, accompagnati da esclusioni e attese in bagno per tendergli agguati. Alle superiori, all’istituto “Pacinotti” di Fondi, la famiglia sostiene che le derisioni non si siano fermate, al contrario. Anche lì restano tracce di nuove segnalazioni, documentate con firme e mail.

La mamma, Simonetta La Marra, parla di un figlio “perseguitato”: “Abbiamo sempre denunciato, ma siamo rimasti inascoltati”. Il padre, Giuseppe Mendico, ricorda le giornate passate a consolarlo, le lacrime nascoste, la difficoltà crescente a trovare un equilibrio. Negli ultimi mesi Paolo aveva smesso di credere che le cose potessero cambiare.

Ora la Procura di Cassino, guidata dal procuratore capo Carlo Fucci, indaga per istigazione al suicidio. I carabinieri di Formia hanno sequestrato i telefoni di Paolo e dei compagni, alla ricerca di messaggi e chat che possano ricostruire con precisione il contesto. Intanto il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha disposto ispezioni in tutte le scuole frequentate dal ragazzo per verificare se i protocolli anti-bullismo siano stati rispettati. L’urna con le ceneri di Paolo è tornata ieri tra le braccia dei suoi genitori. Resta il silenzio di un vuoto che non si colmerà mai, ma anche la necessità di capire come sia stato possibile che, nonostante anni di richieste d’aiuto, quel dolore non sia stato intercettato e curato.

La storia di Paolo è devastante. Lo è perché mi riguarda da vicino: io il bullismo l’ho conosciuto in casa, sulla pelle dei miei figli. Donatella a tredici anni, in seconda media, si è ritrovata vittima di un gruppo di bulle. Ricevette messaggi di minacce, che io stessa pubblicai sui social, chiedendo le scuse. Eppure, quando cercai un confronto con i genitori, fui trattata come la colpevole, come se aver sollevato il problema fosse stato un fastidio. Abbiamo cambiato regione per proteggerla. Eppure anche mio figlio, allora di otto anni, è caduto nella stessa trappola, un giorno tornò a casa piangendo: “Tu vuoi più bene a babbo che a me, altrimenti non ci saremmo mai trasferiti”. Sono state ferite che ci hanno segnato tutti. Noi, alla fine, ne siamo usciti, non perché fossimo più forti, ma forse solo più fortunati: i bulli non sono arrivati a colpire così a fondo da distruggere tutto.

Per Paolo non è stato così. Lui ha combattuto per anni, insieme ai suoi genitori che hanno presentato denunce, segnalazioni, richieste di aiuto. Nessuno li ha ascoltati. E adesso non c’è più. È questo il punto: a quell’età il dolore non è “una ragazzata”. È enorme, insormontabile, assoluto. Non possiamo più permetterci che salvare un ragazzo sia una questione di fortuna. Deve essere un diritto. L’educazione all’affettività e al rispetto deve partire dalle famiglie e deve essere garantita dalle scuole. Perché i bulli non sono “ragazzini intelligenti che fanno qualche sciocchezza”. Sono carnefici. E chi subisce ha bisogno di ascolto, di protezione, di giustizia.

Paolo poteva essere il figlio di tutti noi. E noi non possiamo più accettare che il silenzio diventi complicità.