È da ieri che non mi do pace. Da quando sono stati resi pubblici gli esami tossicologi di Diego ed Elena, i ragazzini uccisi dal padre a mani nude. E no. Non erano stati sedati. Quell’uomo, che non è degno di essere chiamato padre, non ha mostrato compassione nemmeno nei confronti del suo stesso sangue. E se l’autopsia parrebbe confermare che il ragazzino sia passato dal sonno alla morte senza accorgersi di quello che stava accadendo, purtroppo non si può dire la stessa cosa della figlia. Le ecchimosi intorno al collo dimostrano che lei si svegliata, si è accorta dell’orrore che stava accadendo, ha avuto il tempo di rendersi conto che l’uomo che avrebbe dovuto proteggerla, il suo eroe, la stava uccidendo.
Lo ha guardato negli occhi, lo avrà supplicato, si sarà disperata, avrà chiesto pietà, si sarà accorta che suo fratello era morto, ma le mani di suo padre non hanno smesso di stringere, non hanno arretrato di un centimetro, fino a spezzarle i sogni, e la vita. È da quando questa tragedia è accaduta che non riesco a smettere di pensarci, perché il dolore provato a leggere i particolari di questo orrore mi limano dentro, fino a diventare dolore fisico.
E la testa va a un’altra tragedia questa volta senza corpi, un’altra tragedia perpetrata ai danni di una madre colpevole di aver smesso di amare l’uomo che aveva accanto, forse proprio consapevole della deviazione mentale di quest’ultimo. Parlo della scomparsa della gemelline Alessia e Livia Schepp, avvenuta nel 2011. Il padre, Mathias Schepp, le rapì il 30 gennaio, facendo perdere le sue tracce. Da quel momento le bambine non sono state mai più ritrovate, e durante il viaggio della morte lo Schepp spedisce una cartolina alla ex moglie Irina Lucidi alla quale scrive: “Le ho uccise. Le bambine riposano in pace, non hanno sofferto. Non le rivedrai più”. Per poi suicidarsi lanciandosi da un treno in corsa.
Mathias Schepp come Mario Bressi, l’assassino di Margno. Uomini il cui desiderio di vendetta nei confronti delle madri ha superato qualunque altro tipo di sentimento. Sono assassini lucidi e spietati, uomini che pianificano il male delle donne che hanno amato alle quale lasciano un ergastolo infinito di dolore. Che decidono di togliersi la vita come espiazione massima per le vite che hanno tolto, come se bastasse suicidarsi per cancellare l’omicidio dei propri figli. E allora mi sono chiesta come fanno queste donne, queste madri che rimangono orfane del loro bene più grande, i loro bambini, come fanno a sopravvivere alla morte? Come ci riescono? Ed è un lungo elenco di donne che cercano risposte a domande infinite, scavano dentro sé stesse per darsi coraggio, per non soccombere all’orrore, per non dargliela vinta ai mostri che hanno distrutto le loro famiglie.
E allora raccontiamole queste mamme, perché quando accadono queste tragedie si raccontano i mostri, ma spesso ci si dimentica di chi rimane, di chi vive l’inferno in terra, di chi è condannato a vivere nel ricordo. C’è Daniela Fumagalli la mamma di Elena e Diego che due giorni fa in un’intervista al Corriere ha detto: «Sto cercando di resistere al dolore. La vita va affrontata, sempre. Cerco di vincere la rabbia con la dolcezza, di sfidare le lacrime provando a sorridere. Ma la sera tornano le ombre. Odio? Non so cosa significa questa parola. Non riesco a odiare un essere umano. Su chi dovrei riversare poi questo odio? Su qualcuno che non c’è più, qualcuno che aveva una personalità deviata, che mi ha odiato profondamente. Sarebbe giusto ripagare con la stessa moneta?».
O Irina Lucidi, che al dolore per la scomparsa delle figlie, aggiunge il mistero sulla loro fine. Una madre che piange come se non sapesse perché, una madre che vivrà eternamente combattuta tra la speranza irrazionale di un loro ritorno, e la razionale conclusione che così non sarà mai. E anche questa donna ha risposto con amore al dolore, si è licenziata dal vecchio lavoro e ha cominciato a viaggiare, ed è stato in Asia che ha trovato un senso alla sua vita, dormendo nei villaggi presso alcune famiglie, vedendo i bambini felici di tutto pur non avendo nulla, i sorrisi dei figli degli altri l’hanno aiutata a sopravvivere e da lì la svolta. Commovente. Torna in Svizzera e dà vita all’associazione Missing Children perché la sua storia e quella delle sue figlie, possa non ripetersi mai più.
Perché una madre alla fine vince su tutto. Sul dolore. Sulla disperazione. Sulla morte. Nell’unico modo che ha imparato dalla vita. Con l’amore.