La tragedia della Funivia del Mottarone è avvenuta due giorni fa, e io ho perso le parole proprio nell’esatto momento in cui la notizia è iniziata a rimbalzare sui vari siti di informazione, quando il numero dei morti continuava a salire e quello dei superstiti si assottigliava sempre di più, fino all’ultima Ansa che batteva, in un drammatico comunicato, la morte di uno dei due bambini che erano stati estratti ancora vivi dalle lamiere accartocciate di quella cabina bastarda.
Poi sui social sono iniziate a girare le foto ed i nomi delle quattordici vittime, con i loro sorrisi, e quella maledetta voglia di tornare a vivere che era quasi palpabile dalle immagini, fidanzati alla loro prima uscita dopo la fine del lockdown, c’era chi festeggiava il compleanno, chi aveva approfittato della domenica per una gita fuori porta, le ultime parole spedite tramite sms prima di salire sulla funivia e poi il silenzio, quello cattivo, quello che è foriero di disgrazie, quello che avvolge la vita di chi rimane e non lascia scampo.
Quel bollettino di morte racconta la storia di diverse famiglie, Roberta Pistolato e Angelo Vito Gasparro di 45 anni. Erano sposati e residenti a Piacenza, anche se di origini baresi, in gita per festeggiare il compleanno di lei. Pochi minuti prima della tragedia l’ultimo sms della donna, che lavorava come guardia medica, alla sorella: “Stiamo salendo in funivia”. Silvia Malnati, 27 anni, e Alessandro Merlo, 29 anni, erano due fidanzati di Varese. Lei lavorava al negozio di cosmetica Kiko a Milano, si era laureata appena due mesi fa
Serena Cosentino, 27 anni di Diamante (Calabria), che alcuni mesi fa si era trasferita a Verbania per lavorare come ricercatrice al Cnr, e il fidanzato Mohammadreza Shahaisavandi, iraniano di 23 anni che studiava a Roma e l’aveva raggiunta per una gita, poi un’intera famiglia distrutta dall’incidente Vittorio Zorloni ed Elisabetta Persanini. Il loro bimbo, di cinque anni, è morto dopo essere stato trasportato all’ospedale di Torino.
Infine l’ultima che colpisce per drammaticità della violenza che si è abbattuta su di loro, non perché esistano morti di serie A e morti di serie B, ma perché il destino sembra essersi quasi divertito a giocare a carte con le loro vite, perché quello che è accaduto sembra la trama di uno di quei film horror dove i protagonisti riescono a sfuggire alla morte per tutta la durata della pellicola, fino all’ultimo secondo quando però vengono risucchiati nell’abisso. Loro sono Amit Biran e Tal Peleg, rispettivamente di 30 e 27 anni, di Tel Aviv, che avevano deciso di trasferirsi a Pavia per studiare Medicina, ma anche per abbandonare quella terra insanguinata di cui parlavano spesso nei loro post, con loro c’erano anche i bisnonni della coppia, Itshak Cohen, 82 anni, e Barbara Cohen Konisky, 70 anni. Erano arrivati pochi giorni fa per far visita ai nipotini Tom di due anni e Eitan di cinque, per scappare dalla guerra e dai razzi che avevano ripreso a sibilare sopra le loro teste, cosa ci poteva essere di più rilassante di un fine settimana sul lago?
Sono morti tutti, tutti tranne il piccolo Eitan, salvato dall’abbraccio del padre, così almeno è stato detto in ospedale, dove è stato operato e dove oggi sono tutti in attesa del suo risveglio «Per essere riuscito a sopravvivere al terribile impatto è probabile che il papà, di corporatura robusta, abbia avvolto con un abbraccio istintivo suo figlio prima di morire» insieme alla madre. Avevano capito che, almeno per loro era finita. Ed io non riesco a smettere di pensare a questa famiglia, a quei dieci secondi in cui si sono resi conto che la loro vita sarebbe finita quel giorno, al fatto di aver cercato almeno di salvare i loro figli, e che non ci sarebbe stato un ritorno. E poi non riesco a togliermi dalla testa le parole di Eitan “lasciatemi stare ho paura, dov’è la mia mamma?”, questo diceva ai dottori che cercavano di salvargli la vita e che hanno messo in campo tutte le loro forze perché avvenisse questo piccolo miracolo, che da questa immensa e immane tragedia si salvasse almeno un germoglio, almeno un bambino. Perché non si può morire così, in una domenica qualunque, in un giorno di sole, dopo mesi di buio e chiusure forzate, non si può morire con gli occhi pieni di voglia di vivere, solo per aver deciso di fare una gita fuori porta. Queste persone sono morte mentre celebravano la vita, non può essere solo una tragica fatalità.
Tutti i testimoni dell’incidente alla funivia Stresa-Mottarone dicono di aver sentito un forte sibilo prima di vedere la cabina correre all’indietro per trecento metri e precipitare al suolo. Prima hanno sentito un colpo “come uno schiocco”. Quello, secondo chi indaga sulle cause della tragedia, è il rumore della fune traente che si è spezzata. Poi la fune portante, quella che doveva sorreggere la funivia, è precipitata a terra, i protocolli di sicurezza prevedono che in caso di rottura della fune traente, su quella portante scatti un impianto di sicurezza che chiuda immediatamente le ganasce bloccando l’impianto.
Ci saranno indagini che dovranno stabilire le colpe, perché nonostante la manutenzione queste persone sono morte e non si può parlare di sfortuna quando a cedere è una fune e quello che dovrebbe essere il freno di emergenza non si attiva. Non so se si tratterà di incuria, di usura o di malfunzionamento, ma alcuni testimoni parlano di problemi alla funivia già il giorno prima dell’incidente. L’unica cosa sicura di questa tragedia è che la vita di Eitan non sarà mai più la stessa, il giorno che lascerà l’ospedale lo farà tra le braccia dei suoi nonni e della sua zia, accorsi al suo capezzale, perché la sua famiglia non esiste più e qualcuno dovrà rispondere alle domande che nel corso degli anni si faranno sempre più incessanti. Perché a me? Perché a noi? Con un’unica grande consapevolezza l’amore enorme dei suoi genitori che in quei dieci secondi sono riusciti a strapparlo alla morte.