Come tutte le donne che hanno avuto un forte impatto nella storia, nella cultura e nella filosofia, Hannah Arendt è un esempio di libero pensiero e di affermazione di una mente indipendente, in grado di ragionare a dispetto del vissuto, oggettiva e analitica. Le sue riflessioni hanno segnato il Novecento e ci forniscono, ancora oggi, degli spunti più che interessanti.
La Arendt, che non si è mai sentita a suo agio nei panni di filosofa e che ha sempre preferito essere definita politologa, fu colei che teorizzò uno dei concetti più spaventosi che si possano immaginare: quello della banalità del male. Ma non è tutto qui, perché mise in guardia anche su altri pericoli, il cui punto comune era sempre uno: la mancanza di pensiero.
Il processo a Eichmann e la banalità del male
Ma prima di partire proprio dalla banalità del male, facciamo un piccolo excursus sulla vita della Arendt. Nata da una famiglia ebraica nel 1906, crebbe in Germania, dove studiò e si laureò indagando il concetto di amore e devozione, tanto da concentrare la sua tesi proprio sul pensiero di Sant’Agostino. Le sue origini ebraiche, visti i tempi, le diedero molteplici problemi: non ottenne l’abilitazione all’insegnamento in Germania e ciò la spinse a emigrare, prima in Francia e poi negli Stati Uniti.
La Arendt sviluppò un pensiero tanto critico e quanto il più possibile oggettivo verso il nazismo e le deportazioni, condannandole ma allo stesso tempo analizzandole sotto ogni tipo di luce. Il motivo per cui cercò di mantenere sempre un certo tipo di distacco fu il suo amore/affetto verso Martin Heidegger, filosofo con cui ebbe una relazione da studentessa. Heidegger ebbe rapporti con i nazisti, ma la Arendt, dopo aver prima rotto ogni tipo di rapporto, si riappacificò con lui e cercò di difenderne il pensiero.
A dare, però, lo spunto decisivo al suo pensiero più incisivo, fu il processo di Adolf Eichmann, criminale nazista, tenutosi fra il 1960 e il 1962. La Arendt seguì con attenzione tutta la vicenda e proprio grazie a questa sua esperienza scrisse La banalità del male. In cosa consiste questo pensiero? Nel credere che, in realtà, alla base del male non ci sia la malignità o la cattiveria, ma qualcosa di ancor più profondo, subdolo e spaventoso: l’assenza di pensiero, l’incapacità di porsi dei veri quesiti.
Eichmann, infatti, aveva un ruolo preciso durante il regime nazista: trasportare gli ebrei dalle aree occupate dai tedeschi ai campi di concentramento in Polonia. Di fatto, dunque, non uccise nessuno in prima persona, ma supervisionò il corretto funzionamento di quei treni che portarono alla morte milioni di ebrei, semplicemente per adempiere al suo dovere, agendo in base ai suoi obblighi, senza, appunto, chiedersi altro.
Nel corso del processo, emerse chiaramente che Eichmann si muoveva al di sopra delle emozioni, dell’empatia e del pensiero critico: il suo obiettivo era quello di svolgere il suo lavoro, senza fare troppe domande e crogiolandosi nella sicurezza economica e nella sua posizione di alto livello, due cose che, visto il periodo, erano rare. Per Arendt, questa era la banalità del male: non porsi domande, agendo non con cattiveria ma “soltanto” (e più terribilmente) con inerzia.
L’apatia politica e il totalitarismo che divora il pensiero
Il concetto di banalità del male della Arendt, così come l’omonimo libro, scatenarono diverse reazioni. La politologa, infatti, nel suo scritto, sostiene che il processo a Eichmann sia stato anche fin troppo severo e fin troppo imperniato sulla condanna dell’uomo come antisemita, nazista e criminale. In realtà, per la pensatrice, Eichmann non era niente di tutto ciò: lo definì un uomo mediocre, di bassa cultura e mosso non dall’ideologia ma dal desiderio di compiacere i suoi superiori per mantenere solida la sua posizione.
La Arendt sottolineò che, a suo parere, Eichmann aveva delle responsabilità minori rispetto a quelle che gli erano state attribuite. In qualche modo, questo fece scalpore, ma di fatto la Arendt stava facendo un’osservazione dura e reale: per avviare regimi totalitari come il nazismo servono più Adolf Eichmann che Adolf Hitler (senza i primi, infatti, il totalitarismo non esisterebbe). Studiando le cause della Seconda Guerra Mondiale, dunque, la Arendt fece riferimento al concetto di massa, ovvero un gruppo di persone distinte dall’apatia politica.
L’apatia politica, per la pensatrice, era anch’esso alla base della banalità del male: è un consenso silenzioso, velenoso, che sottende la mancanza di responsabilità personale e politica nei confronti di entità più ampie e spiega l’incapacità dell’uomo di unirsi agli altri, anche quando in ballo ci sono interessi che possono essere comuni.
Il lavoro come condanna all’automazione
Un altro ragionamento della Arendt che fece scalpore e che può in qualche modo collegarsi alla banalità del male, è quello della critica alla modernità e, in particolare, al lavoro. Eichmann svolgeva il suo, non chiedendosi altro. Per la Arendt, proprio questa attività svolta senza porsi alcun tipo di domanda era sinonimo di qualcosa di terribile: l’automazione, lenta e inesorabile, che implicava una trasformazione degli uomini in robot economici.
Per la pensatrice, questo trionfo del fare sul pensare era la premessa per la lenta disgregazione dell’identità, che sembrava svanire una volta subentrato il lavoro. Ed era una minaccia al pensiero più alto, alla capacità di ragionare. Ancora oggi, il pensiero della Arendt sembra più che mai attuale e, forse, ogni giorno, dovremmo chiederci se anche noi ci stiamo prodigando in favore della banalità del male.