“La civiltà inizia dalla cura”. Il bellissimo messaggio di Margaret Mead

Un messaggio prezioso che oggi dovremmo fare nostro e che dovremmo applicare alla nostra società. Quella veloce, quella dei continui cambiamenti, quella che lascia indietro i diversi, i deboli e i feriti

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Sabina Petrazzuolo

Lifestyle editor e storyteller

Scrittrice e storyteller. Scovo emozioni e le trasformo in storie. Lifestyle blogger e autrice di 365 giorni, tutti i giorni, per essere felice

Pubblicato: 12 Agosto 2021 11:19Aggiornato: 9 Aprile 2024 10:36

Cosa caratterizza, in maniera univoca, la nostra umanità? Forse l’empatia e la gentilezza, o la generosità. Oppure, ancora, quella naturale propensione a occuparci degli altri, in maniera amorevole e disinteressata. Sì, forse è proprio su questo che si fonda una civiltà intera, sulla cura degli altri, come affermava l’antropologa Margaret Mead.

Chi era Margaret Mead

Chiunque sia avvezzo agli studi di antropologia, conosce sicuramente il lavoro di Margaret Mead. Nata a Philadelphia il 16 dicembre del 1901, sin da giovanissima mostrò una particolare curiosità nei confronti del mondo e delle popolazioni che lo abitano. Così, dopo le scuole superiori, studiò psicologia e diventò allieva di uno dei più importanti antropologi del 1900: Franz Boas.

Spinta dall’insegnamento, iniziò a viaggiare giovanissima per indagare il mondo e le sue popolazioni. E così fece per tutta la sua vita, analizzando le dinamiche esistenti tra gli individui e la società. Fu una femminista convinta e, molte delle sue idee e dei suoi studi di genere, furono ripresi proprio dai movimenti femministi americani ed europei. Nel 1944, inoltre, fondò insieme a Ruth Benedict, l’Institute for Intercultural Studies.

La civiltà inizia dalla cura

È immensa l’eredità lasciata da Margaret Mead grazie ai suoi studi e alle sue ricerche. Ma in questo mare magnum antropologico una cosa ci ha colpito più di tutto il resto. La Mead riteneva che il primo segno di civiltà di una cultura non risiedeva nella sua capacità di procurarsi da mangiare o di dialogare, come in molti sostenevano, e neanche dalle armi o dalla bravura nel coltivare la terra, ma dalla cura.

L’antropologa, infatti, prendendo in considerazione ciò che succede nel mondo animale, ci ha messo davanti a una verità che fa riflettere. Quando un animale è ferito, non può andare da qualche parte a cercare una cura, né tantomeno sarà salvato da qualcun altro. Non sopravviverà così a lungo affinché la ferita possa rimarginarsi, il suo destino sarà quello di diventare cibo per altri animali.

Ma per gli essere umani no, non è così che funziona. Perché loro, anzi noi, hanno la capacità e il potere di aiutare qualcuno in difficoltà. Ed è quando lo facciamo che inizia la civiltà. Questa spiegazione si trasforma, inevitabilmente, in un messaggio prezioso che oggi dovremmo fare nostro e che dovremmo applicare alla nostra società. Quella veloce, quella dei continui cambiamenti, quella che lascia indietro i diversi, i deboli e i feriti.

Perché non c’è più nessuno, o quasi, che si ferma ad aspettare chi è rimasto indietro, che sceglie di riunirsi intorno alla persona malata per prendersene cura. Le uniche cure contemplate sono quelle delle medicine e degli ospedali.

Eppure, se è vero che quello che diceva Margaret Mead, che la cura ci rende civili e umani, forse sarebbe opportuno fermarsi a riflettere per stabilire delle nuove priorità. Per dedicarsi un po’ più agli altri e pensare un po’ meno a noi stessi come singoli, ma come parte integrante di una comunità. Come facevano gli sciamani, gli stregoni e i guaritori dei villaggi.

Ecco, potremmo prendere esempio da loro e ricominciare a occuparci degli altri, a curarli. Con amore e disinteresse, insieme, come una comunità. E allora sì che potremmo ritrovare la nostra umanità.