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Carcinosi Peritoneale da Ovaio. Quando operare?

Cos’è, come approcciare la patologia e quando prendere in considerazione l'intervento chirurgico

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Redazione

DiLei è il magazine femminile di Italiaonline lanciato a febbraio 2013, che parla a tutte le donne con occhi al 100% femminili.

Si stima che il carcinoma ovarico sia uno dei più letali tumori ginecologici rappresentando il 30% di tutti i tumori dell’apparato genitale femminile ed è la quarta causa di morte per neoplasia maligna nelle donne nei paesi industrializzati. In questi paesi colpisce circa 17 casi su 100.000 donne per anno con una mortalità di 12/100.000. Secondo dati ISTAT nel 2020 in Italia le morti per tale patologia hanno superato i 5000 casi. Si tratta di una malattia spesso paucisintomatica e dalla grande capacità di diffusione nella cavità addominale. Purtroppo, circa il 75% delle pazienti presenta metastasi al peritoneo già al momento della diagnosi iniziale.

Come trattare il carcinoma

Abbiamo voluto approfondire l’argomento del carcinoma ovarico insieme al Prof. Paolo Sammartino, professore universitario dell’Azienda Ospedaliera Policlinico Umberto Idell’Università Sapienza di Roma e chirurgo specialista di fama internazionale nel campo della chirurgia oncologica nel trattamento delle neoplasie primitive o metastatiche del peritoneo.

Professore, cos’è il carcinoma ovarico e come diventa carcinosi peritoneale?

Intanto vorrei premettere che il termine di carcinosi peritoneale è un termine che si continua ad usare ma che dovrebbe essere abbandonato perché nell’immaginario collettivo è sinonimo di incurabilità cosa oggi fortunatamente non più vera. La diffusione e quindi la metastatizzazione al peritoneo e quindi alla cavità addominale e ai suoi organi nel caso delle neoplasie tubo-ovariche è un fenomeno estremamente frequente. La frequenza del fenomeno è tale che per questa patologia la diffusione peritoneale, solo per queste neoplasie a differenza delle altre, non comporta la Classificazione del tumore al IV Stadio. È molto importante stabilire prima del trattamento il tipo istologico coinvolto. Nella maggioranza dei casi (70%) si tratta di carcinoma sieroso di alto grado una neoplasia molto aggressiva a partenza dalle tube (per questo è più corretto esprimersi come neoplasie tubo-ovariche) ma nello stesso tempo molto sensibile alla chemioterapia con carboplatino e taxolo. Questa sensibilità alla chemioterapia, presente nella maggioranza di questi casi, è molto importante per programmare approcci terapeutici multidisciplinari e magari operare dopo che una chemioterapia neoadiuvante ha molto ridotto la massa tumorale.

Si tratta di una malattia asintomatica, ma può dare delle avvisaglie?

Come detto in precedenza ci possono essere esordi paucisintomatici. Bisogna prestare attenzione ad alcuni sintomi come un particolare gonfiore addominale persistente. Oppure alla presenza di dolore pelvico e addominale anch’essi in modo persistente. Ovviamente la prevenzione e i controlli effettuati da professionisti accreditati sono sempre la miglior scelta.

A proposito di cure. Come si trattano queste forme tumorali?

Oggi è impensabile trattare una patologia così complessa da parte del solo team chirurgico. Il trattamento dei pazienti deve essere affidato a un team multidisciplinare composto da diverse figure professionali, le quali, agendo in sinergia, portano a compimento il progetto terapeutico del paziente. Il nostro gruppo, in 20 anni di ricerche, ha prodotto numerosi lavori scientifici, partecipando a diversi congressi nazionali e internazionali, rivestendo nel panorama internazionale un ruolo di primo piano. Ma questa esperienza ci ha portato soprattutto a capire come una corretta metodologia di approccio sia fondamentale. Come sottolineavo prima la corretta identificazione dell’istotipo (mediante una laparoscopia diagnostica) è elemento imprescindibile per impostare un trattamento sempre più personalizzato della paziente. Per istotipi poco responsivi al trattamento sistemico infatti può essere opportuno privilegiare un approccio chirurgico iniziale mentre nei casi molto chemiosensibili va valutata l’opportunità di una chemioterapia neoadiuvante ossia precedente alla chirurgia. Per quanto riguarda il trattamento chirurgico noi esperti di patologia neoplastica peritoneale adottiamo gli stessi principi chirurgici da tempo standardizzati da Paul Sugarbaker e che prevedono la peritonectomia dei vari distretti associata alle resezioni viscerali necessarie e che in questi casi ovviamente includono di principio l’isteroannessectomia. A differenza però della maggioranza dei ginecologi oncologi noi a completamento della fase chirurgica utilizziamo la chemioterapia intraperitoneale ipertermica definita HIPEC. In analogia alle indicazioni che utilizziamo per metastasi peritoneali da neoplasie appendicolari, gastriche, coliche e nei tumori primitivi del peritoneo (mesotelioma), dopo l’asportazione di tutto il tessuto neoplastico macroscopicamente visibile, sterilizziamo la cavità addominale da quel residuo microscopico che il chirurgo non può ovviamente vedere con la somministrazione di farmaci ad alta temperatura direttamente nell’addome. Due studi randomizzati uno condotto in Olanda ed uno in Francia hanno confermato l’incremento di sopravvivenza nelle pazienti in cui è stata associata l’HIPEC alla chirurgia nelle neoplasie tubo-ovariche sia nel trattamento della malattia primaria che nella recidiva.

Quali sono le prospettive di vita dopo una diagnosi di diffusione peritoneale da neoplasia tubo-ovarica? 

Attualmente i risultati oncologici di questi trattamenti sono correlati principalmente a tre variabili: l’istotipo specifico della malattia, l’entità del coinvolgimento peritoneale presente e la sensibilità al trattamento chemioterapico che come dicevamo in alcuni istotipi è maggiore ma non sempre una certezza dipendendo da sottoclassificazioni molecolari dell’istotipo stesso. Va comunque sottolineato ancora una volta che i risultati sono frutto di sforzi comuni del chirurgo oncologo e dell’oncologo medico. Possiamo comunque affermare che dagli ultimi dati disponibili, anche nei casi con importante diffusione peritoneale all’esordio, possiamo registrare una sopravvivenza mediana di oltre quattro anni, un risultato che fino a qualche anno fa non ci saremmo aspettati di raggiungere. E speriamo di fare ancora di meglio in futuro.