Nakba, cos’è e cosa significa per i palestinesi

"La catastrofe", la Nakba, una ferita indelebile nella memoria dei palestinesi

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Giorgia Prina

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Pubblicato: 15 Maggio 2024 11:56

La catastrofe. Così i palestinesi hanno chiamato il 15 maggio del 1948. La Nakba, come viene chiamata in arabo. Un momento indelebile nell’eredità storica delle generazioni che quel momento lo hanno vissuto, subito, ricordato. 700 mila persone, appena il giorno dopo la nascita dello Stato di Israele, vennero costrette a un esodo che ancora oggi la versione israeliana definisce “volontario”, ma che di volontario ebbe ben poco. Un anniversario che oggi fa ancora più male, colpito al cuore dalla guerra in corso.

Cos’è la Nakba

Nakba è il termine arabo con cui viene indicata, nella storiografia contemporanea, la cacciata di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948 e della guerra civile che la precedette. Un processo che durò mesi, ma il 15 maggio venne scelta come data simbolica, ad indicare una conseguenza diretta della creazione dello Stato di Israele.

Una nascita, quella dello Stato israeliano, frutto della decisione dell’Onu di ripartire il territorio palestinese. Il 56% doveva essere concesso agli ebrei e il resto ai palestinesi. Con le rispettive aree di influenza già esistenti come guida e Gerusalemme neutrale e governata direttamente dall’Onu. Israele accettò la proposta, i palestinesi no. Israele impedì l’esercizio del diritto di rientrare, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite, mentre i profughi venivano sistemati in campi gestiti dai Paesi arabi ospitanti e dalle organizzazioni internazionali.

Oggi, nella Striscia di Gaza, tre quarti degli abitanti sono discendenti di sfollati della Nakba — molti altri vivono ora in Libano, Siria, e in Giordania. La chiave è stata ed è ancora oggi il simbolo della “catastrofe” che colpì il popolo palestinese. Molte famiglie conservano la chiave della casa abbandonata fra il 1948 e il 1949 e la tramandano di padre in figlio.

Cosa significa la Nakba per i palestinesi oggi

Ma quella tra Israele e Palestina è una storia che si ripete, la cui violenza riverbera di anno in anno. Oggi, nell’anniversario dei 76 anni dalla Nakba, più di mezzo milione di palestinesi sono di nuovo in fuga. Il ritorno di combattimenti in aree dove in precedenza l’esercito israeliano aveva dichiarato di aver concluso le operazioni ha portato altri profughi, altri allontanamenti, altra distruzione.

Nei giorni scorsi, invece, la popolazione ebraica di Israele ha celebrato l’anniversario di Yom HaAtzmaut, il “giorno dell’indipendenza”, l’anniversario della nascita del proprio Stato. Durante una manifestazione di estrema destra per il giorno dell’indipendenza, a Sderot, poco distante dalla Striscia di Gaza, il ministro alla Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha dichiarato che gli israeliani devono “tornare subito a Gaza” — “Torniamo a casa! Alla terra santa!” — e che Israele deve “incoraggiare” la “migrazione volontaria” dei palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza. Alla stessa manifestazione era presente anche il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, che ha detto ancora più esplicitamente che “per preservare i successi di sicurezza (sic) per cui sono morti i nostri soldati, dobbiamo ricolonizzare Gaza, con forze di sicurezza e coloni che abbracceranno la terra con amore. “Questo è l’unico vero modo per farla pagare ai nazisti di Hamas e difendere la nostra nazione.”

Sono in programma manifestazioni in numerose università italiane, quelle dove da giorni stazionano le tende degli studenti pro Palestina. Allerta alta da parte delle forze dell’ordine che ipotizza infiltrati all’interno della protesta. Il movimento dei Giovani palestinesi in Italia ha chiesto “alle università italiane, per tramite e nel contesto della Crui, di denunciare l’aggressione militare israeliana sulla popolazione della Striscia di Gaza oltre a esprimere solidarietà alla popolazione palestinese” e “la risoluzione immediata di tutti gli accordi universitari con atenei e aziende ubicate in Israele e il boicottaggio totale del sistema accademico israeliano”. Richieste sono arrivate anche al governo italiano e al Ministero dell’Università.