Sono trascorsi più di 40 anni da quel giorno, non abbastanza per dimenticare il dolore e la sofferenza di tutte le persone coinvolte. Perché quello che è stato considerato il più grave disastro ambientale della storia italiana ha lasciato dei segni indelebili nel cuore di chi lo ha vissuto in prima persona.
Erano le 12.40 del 10 luglio del 1976 quando la vita degli abitanti di Seveso cambiò per sempre. Quel maledetto giorno, infatti, quattrocento chilogrammi di veleno fuoriuscirono dalla Icmesa di Meda, le Industrie chimiche Meda società azionaria.
Seveso, che confina con Meda, ha accolto, inconsapevolmente, tutta quella diossina. E ancora oggi l'aria e irrespirabile, non solo per l'inquinamento, ma per tutto il dolore sepolto. Quello dei bambini, detentori di sogni straordinari e grandissimi, spazzati via dal dolore e dalla cloracne che ha deturpato i loro volti e i loro corpi. Gli stessi che crescendo hanno dovuto subire l'infamante accusa delle voci maligne, pronte ad accusarli di essersi intascati i soldi del risarcimento. Perché erano dei sopravvissuti. E il prezzo da pagare è stato troppo alto.
Seveso e quelli della diossina
Era un luglio come un altro quello del 1976 per gli abitanti della provincia di Monza e Brianza in Lombardia. Quando il calendario ha segnato l'inizio del mese, certo, nessuno poteva aspettarsi che da lì a pochi giorni il disastro ambientale più grave della storia italiana si sarebbe consumato tra Seveso e Meda.
Eppure è arrivato. Prepotente e terribile. La nube di diossina è uscita, senza controllo, dalla ICMESA e, silenziosamente, ha distrutto tutto. L'ambiente, la vita delle persone, le ali dei bambini.
Nessuno lo sapeva, nessuno poteva immaginare quanto grave fosse il danno di quell'incidente. Nessuno ne parlava, almeno all'inizio. Poi gli animali iniziarono a morire e le piante insieme a essi. I volti dei bambini si sfigurarono e i primi casi di cloracne, una grave forma di dermatosi causata dall'esposizione a cloroderivati tossici, destò la preoccupazione di molti.
Ci vollero 5 giorni affinché l'allora sindaco di Seveso intervenne con una restrizione che vieteva di mangiare i prodotti della terra, di bere o di lavarsi con l'acqua e di toccare piante e animali. Ma ormai, era troppo tardi.
"Ho scoperto che non si può dimenticare, non si può far finta di niente"
Compresa la gravità della situazione, dopo 9 giorni dal disastro la fabbrica venne chiusa e oltre 600 persone furono costrette a lasciare le loro abitazioni. Tra queste c'erano anche i bambini, quelli che ancora oggi si nascondono dalle voci discriminanti e cattive. Quelli che sono stati costretti a scappare lontano perché non bastava il dolore fisico ed emotivo di essere stati coinvolti nel disastro, no. Dovevano essere bollati dalla società. E così è stato.
‘’Ho scoperto che non si può dimenticare, non si può far finta di niente. La diossina mi ha rovinato la vita e questa cosa mi torna in mente ogni volta che mi guardo allo specchio’’ - Queste le parole di Stefania Senno, la più giovane delle vittima di Seveso che allora aveva solo 2 anni, rilasciate al Quotidiano Nazionale e riportate da Adnkronos - "Per me crescere è stato più difficile che per tutti gli altri. Ho passato anni impossibili, pomeriggi in camera a piangere’’.
A soli due anni Stefania si ritrovò col viso sfigurato, costretta a subire diversi interventi chirurgici che hanno forse coperto quelle testimonianze del disastro sul corpo, ma non nel cuore. C'era lei e sua sorella di 4 anni, c'erano anche tanti altri bambini. Alcuni, insieme alle famiglie, sono andati lontani da quel luogo di dolore. Altri sono rimasti.
Il dramma di quei bambini è stato raccontato da Andrea Galli sul Corriere: non sono stati solo vittime del disastro, ma anche della società in cui vivevano. Le famiglie che hanno scampato il disastro, infatti, hanno marchiato gli altri, ulteriormente, accusandoli di avere intascato i soldi del risarcimento e di essersi arricchiti. Come se poi bastasse del denaro a cancellare tutto quel dolore.
"Ma questi si sa" - racconta al Corriere uno dei bambini di Seveso - "di solito arricchiscono chi il denaro già lo ha e mica i poveracci, non devo venirglielo a insegnare io, giusto? Così va il mondo".
Alice Senno e la sorellina Stefania, 4 e due anni all'epoca del disastro di Seveso. Foto Getty Images
Il risarcimento danni
Sì, il risarcimento danni c'è stato, insieme a una giustizia parziale. Dopo una trattativa durata circa un anno, il 25 marzo del 1980 si è raggiunto un accordo di risarcimento danni pari a 103 miliardi e 634 milioni per il "disastro di Seveso" che escludeva responsabilità legate a eventuali altre complicazioni (Wikipedia).
I danni subiti dai privati, furono risarciti in denaro, appunto, mentre i dipendenti collegati al disastro furono processati e condannati a qualche anno di reclusione.
Laura Conti, Seveso e l'aborto
Quello che è stato uno degli incidenti ambientali più gravi del nostro Paese e del mondo intero, complice ancora oggi dell'aumento di neoplasie e linfomi, intreccia la sua storia con quella dell'aborto in Italia. Questo tragico avvenimento, infatti, diede una spinta non indifferente a uno dei più importanti temi civili dibattuti negli anni '70.
Tra i tanti danni causati dai veleni fuoriusciti dalla fabbrica di Meda, uno su tutti interessava le donne. Una premessa è doverosa: a quei tempi nessuno conosceva la reale pericolosità della diossina, motivo per il quale lo stesso disastro fu sottovalutato i primi giorni.
Si sapeva però che questa sostanza non solo faceva morire gli animali, ma causava anche delle malformazioni dei loro feti. Alcuni iniziarono a comprendere il reale pericolo per le gravidanze umane. Ma in un epoca in cui l'aborto non era ancora legale nel nostro Paese, come si poteva fare?
Con Seveso prese vita anche una delle più importanti battaglie femministe, coadiuvate dai radicali italiani, contro i conservatori e i religiosi, per concedere alle donne di interrompere la gravidanza, vista la pericolosità delle conseguenze del disastro in questione. Tra queste persone, in prima linea, c'era Laura Conti, partigiana, medico e ambientalista.
Fu lei a supportare tutte le donne coinvolte nel disastro, sempre lei a denunciare il loro trattamento. Perché c'era chi, queste donne, le accusava per la volontà di abortire e chi le forzava a farlo, chi ancora le "utilizzava" come esperimenti, per approfondire appunto le conseguenze della diossina.
Testimone della catastrofe, Laura Conti ci ha lasciato una grandissima eredità in due scritti: il reportage Visto da Seveso e il romanzo Una lepre con la faccia di bambina. La sua attività non solo contribuì ad aprire la strada all'aborto, ma anche ad attenzionare al mondo intero il modo in cui le donne venivano trattate. E fu ancora lei a denunciare il silenzio dei danni causati dalla diossina, tra i quali anche gli aborti spontanei.