Giovanna Botteri: dalle bombe alla pandemia, con mia figlia nel cuore

"Quando senti tua figlia per telefono, e sei in guerra, in quel preciso momento avviene la magia, quella che ti fa dire: io devo sopravvivere  perché c'è lei ad aspettarmi, lei il mio punto di ritorno"

Foto di Irene Vella

Irene Vella

Giornalista televisiva

Scrive da sempre, raccogli emozioni e le trasforma in storie. Ha collaborato con ogni tipo di giornale. Ha fatto l'inviata per tutte le reti nazionali. È la giornalista che sussurra alle pasticcerie e alla primavera.

Della prima volta che ho visto Giovanna mi ricordo gli occhi, quel famoso colore cielo che buca lo schermo. Intorno a lei una guerra, una guerra bastarda come tutti i conflitti sanno essere, ma così vicina da poter essere toccata con mano. E la mano era quella gentile della Botteri, uno sguardo attento, diverso nel raccontare la morte sotto le bombe, il suo viso era pulito, senza un filo di trucco, perché non ce n’è mai stato bisogno, sono sempre state le immagini e le sue parole a parlare per lei. A raccontare la guerra attraverso una cena che di normale non ha più nulla, quando si muore per andare a cercare un pezzo di pane al mercato o mentre i bambini giocano con lo slittino. Sempre lei, l’inviata di guerra più tosta del Tg3, insieme alla sua amica del cuore, Ilaria Alpi. Loro che sono state le “ragazzette” della redazione, proprio come dice lei, loro che hanno inventato un nuovo modo di raccontare la devastazione, loro che sono state divise solo dalla morte, ma unite per il resto della vita nella ricerca della verità.

Giovanna, una carriera pazzesca da giornalista, inviata, corrispondente dall’estero. Ti ricordi il primo articolo che hai scritto?
Se penso al primo articolo scritto di sicuro dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, forse alle scuole elementari, in qualche compito in classe. Ma se devo ricordarmi il primo pubblicato probabilmente dobbiamo fare un bel salto. Io studiavo a Parigi e ho cominciato a fare interviste alle persone che mi colpivano, che mi interessavano, ma siccome ero nessuno, c’era questo escamotage di dire “lavoro per” e sbam ti si aprono le porte. La gente ti accoglie, ti ascolta. Diciamo la verità: è un lavoro meraviglioso il nostro. Quindi se la memoria non mi inganna il primo articolo scritto e pubblicato è stato durante l’università per “Il Piccolo” e “L’Alto Adige”.

Giovanna Botteri da bambina
Fonte: Giovanna Botteri
Giovanna in una foto da bambina

Nel 1985 Michele Santoro ti vuole come collaboratrice a Samarcanda, che ricordi hai di quella trasmissione?
Avevo appena fatto una trasmissione con Margherita Hack, che è stata presa da Rai Tre. Allora mi trasferisco a Roma e per i primi tempi vivo nella casa di Susanna Tamaro (la scrittrice, ndr) a Trastevere, visto che lei si era già trasferita in campagna, e mi prendono al Tg3, che era nato da poco. Lì come vice redattore capo della Cultura c’era Michele Santoro e mettono su Samarcanda che andava in onda in seconda serata. Eravamo in cinque, sei persone. Una trasmissione visionaria, come il suo fondatore, diversa da quelle viste fino a quel momento. La cosa fantastica di Michele è che lui aveva un’idea incredibilmente televisiva, lui ragionava per immagini sulla notizia, sull’attualità. È stata una scuola incredibile perché non è l’articolo, non è la radio, è un mezzo, uno strumento diverso, devi pensare come un film, devi fare una sceneggiatura. Erano anni di sperimentazione, gli anni del cambiamento epocale, con la caduta del muro di Berlino e le conseguenti trasformazioni degli equilibri mondiali. Io ho avuto la fortuna di avere dei grandi maestri che mi hanno insegnato il mestiere, sono andata a Mosca come “ragazza di bottega” e c’era Demetrio Volcic che mi ha istruito sulle basi del nostro lavoro, come si raccoglie e si racconta una notizia. Al mattino prima devi sentire la voce del governo, poi le voci dell’opposizione, poi confrontarti con i colleghi della BBC. In pratica come si costruisce la notizia da più punti, verificare le fonti per avere un controllo pieno sull’informazione che si va a dare. Forse in quest’epoca di fake news bisognerebbe tornare alle basi del giornalismo, sentire governo ed opposizione e il confronto con i colleghi inglesi, francesi e americani, col il dialogo si arriva alla notizia.

Dopo Samarcanda arriva la guerra vera, come inviata. Ricordi la tua prima volta?
È stato l’inizio della guerra in Bosnia, io ero al Tg3, Sandro Curzi era il direttore e visto che il conflitto era alle porte di casa mia (Trieste) lui mi dice: vai e racconta quello che vedi. Io ho lasciato mia figlia piccolissima e sono partita, raccontare una guerra in posti che tu hai vissuto prima delle bombe, prima della morte, cambia la prospettiva al racconto, perché tu la conoscevi già e puoi narrarla attraverso gli occhi di chi sa cosa è successo perché lo ha visto, è un racconto interiore, personale di quello che succede. E quello è rimasto il mio approccio alla notizia: non l’occhio da fuori, ma l’occhio da dentro, la normalità sconvolta dagli eventi, quello è il servizio che devi offrire a chi ti ascolta e a chi ti guarda, vedere la brutalità della guerra attraverso gli occhi di chi la sta vivendo, perché quello che mostri non è un film, ma la realtà. Una cosa è raccontare la geopolitica, altra cosa raccontare la normalità di una famiglia a cena che viene sterminata da una bomba, perché tutti ci riuniamo a un tavolo per mangiare, solo che in quei momenti c’erano persone che da quel tavolo non si rialzavano più. Io ho cercato di essere la loro voce e i loro occhi.

Inviata di guerra e mamma. Quindi si può fare
All’inizio per me era difficile, c’erano pochissime donne e quelle che c’erano non avevano figli. Anche per questo è importante, perché è essenziale il racconto fatto con occhi diversi, una donna racconta gli eventi con una visione che fino a quel momento non è mai stata presa in considerazione. Pensiamo alla narrazione della guerra, dal 1800 in poi, ci siamo sempre concentrati sulle battaglie, quello che abbiamo studiato nei libri di storia, chi vince, chi perde, i generali. In pratica un racconto tutto al maschile di devastazioni che hanno cambiato la vita di tutti, ma non è lo strazio di chi subisce la guerra a venire raccontato, ma solo di chi la fa. L’occhio femminile ha cambiato la prospettiva dell’inviato filmando la vita di chi subisce lo strazio di una perdita, la disperazione di chi non sa come sfamare la propria famiglia, ha dato umanità e rispetto a chi non ha armi per difendersi, ma solo la voce per raccontarlo. La narrativa è cambiata grazie alle donne, questo davvero bisogna dirlo.

Tu e Ilaria (Alpi) eravate amiche, “le ragazzette” della redazione esteri del Tg3, testa bassa e pedalare. Poi è arrivata la vostra occasione come vere inviate: tu nei Balcani, lei a Mogadiscio. Ilaria non tornerà più, hai mai pensato che potevi esserci tu al suo posto?
Io e Ilaria eravamo le “compagnucce” di banco. Stavamo nella redazione del Tg3 a montare le immagini dei veri inviati, aspettando la nostra occasione, siamo state mandate a raccontare i conflitti dove non andavano gli altri, quindi io in Bosnia e lei in Somalia. Ad un certo punto ci scambiamo anche l’operatore, Miran, che aveva fatto questo lungo inverno a Sarajevo con me, a filmare la strage del pane o l’eccidio dei bambini in slittino, un anno davvero pesante emotivamente, per cui l’idea di andare al “caldo” di Mogadiscio lo aveva in qualche modo convinto. La notizia della sua morte è stata devastante. Io sapevo che loro erano in Somalia e che dovevano rientrare in Italia, ci sentivamo quasi tutti i giorni perché il mio operatore era collega e amico di Miran. Contemporaneamente noi partiamo per Vitez, in Bosnia centrale, dove sono avvenuti i massacri più cruenti, dove i vicini di casa rinchiusero donne e bambini in cantine dandogli fuoco, e non riusciamo a comunicare, una situazione terribile. Finiamo in una postazione inglese della BBC e riusciamo a rientrare a Sarajevo, io chiamo in redazione per sapere se Ilaria e Miran fossero rientrati e la collega dall’altra parte mi dice “guarda che sono morti”. Io sono impazzita, ho preso la macchina e da Sarajevo ho fatto in macchina da sola tutta la ex Jugoslavia in guerra e sono arrivata a notte fonda da mio papà a Trieste e la mattina mia figlia viene avvicinata da una bambina all’asilo che le chiede “ho sentito che è morta un’inviata del Tg3, è tua mamma?”

Come hai fatto a ritornare in Bosnia? Come si riesce a tornare a fare l’inviata di guerra quando la morte ti sfiora così da vicino?
Si ritorna perché sai che le persone che hai perso non avrebbero voluto che tu smettessi, perché ci credevano, perché amavano quel lavoro, per noi era un privilegio andare in quei luoghi e riuscire a raccontarli. Si ritorna per finire quello che hai iniziato, anche per quelli che non ci sono più. Si ritorna per non dimenticare.

Giovanna Botteri con la figlia
Fonte: Giovanna Botteri
Giovanna e sua figlia

Si dice che ai corrispondenti di guerra, una volta finita l’emergenza, la paura, manchi raccontare quel tipo di storie, sempre in bilico tra l’adrenalina e la voglia di far vedere quello che realmente accade, è così?
È sicuramente vero, perché vivere la quotidianità è difficile, quando vivi in situazioni estreme come la guerra, i rapporti con le persone sono diversi da quelli che vivi normalmente, ne hai pochi, perché non hai tempo da perdere. Sono rapporti densi, pieni di sentimenti di affetto, di amore, di scambio perché saltano tutti quei rapporti intermedi che fanno parte del quotidiano, il “ciao come stai” detto a cento persone in un giorno, di cui non vuoi nemmeno stare a sentire la risposta, saltano le formalità del vivere. Hai solo l’essenzialità. Il ritorno alla normalità per chi vive quest’esperienze è sempre molto difficile, io conosco persone che al rientro della guerra sono andate fuori di testa perché durante un’emergenza non hai bisogno di raccontare agli altri quello che stai vivendo, perché gli altri sono come te e vivono la tua stessa realtà, comunichi in silenzio. Quando l’emergenza finisce è come se tu non sapessi più comunicare con gli altri, hai imparato a farlo in silenzio, ma chi ti sta vicino non può capire quello che stai vivendo se non glielo racconti, per chi fa il nostro lavoro diventa un rischio. Una trappola mortale.

Per te però non è stato così. Qual è stata la tua arma segreta?
La mia storia è sempre stata diversa. Io avevo la mia bambina, avevo mia figlia. Ero l’unica del gruppo di inviati ad averne nella guerra in Bosnia, spesso accadeva che mi prendessero in giro per questo, ma lei è stata la mia ancora, quella che mi ha riportata a casa sana e salva. Perché alla fine di quelle giornate pazzesche senti tua figlia che ti chiede di cantare quella canzoncina o ti parla di quei pantaloni a fiori che ha messo, e in quel preciso momento avviene la magia, quella di riportarti con i piedi per terra, quella che ti fa dire: io devo sopravvivere  perché c’è lei ad aspettarmi, lei il mio punto di ritorno.

Dopo la guerra è arrivata la conduzione del Tg3 per due anni e poi tredici di Stati Uniti. Ti trasferiscono in Cina e dopo pochi mesi scoppia la pandemia. Diventi ostaggio di un nemico invisibile, sei di nuovo a caccia, ma questa volta di un qualcosa che non si vede. Cosa racconti in questo caso?
Una cosa che ha cambiato molto l’informazione è il mondo dei social, dove la gente si racconta, si confessa, cerca supporto, cerca ascolto. Tu hai la possibilità di leggere e di capire gli altri anche se non vai più a casa loro, sono loro che arrivano.

E raccontano la guerra. Anche quella che non si vede.