Non poteva che esserci la pizza nella shortlist di ciò che le era più mancato durante questa quarantena: da buona, anzi ottima napoletana, “appena è stato possibile, anche io e il mio compagno abbiamo usufruito di questa opportunità”. Cristina Donadio, una delle attrici partenopee più amate, ha resistito per diverse settimane senza, non prendendo neanche in considerazione l’opzione della consegna a casa: “Non c’è niente da fare: la pizza va mangiata appena esce dal forno. Ci sono cose che se sono diventate così internazionali e iconiche, è perché così sono nate e così devono rimanere”.
Come tutti gli “addetti ai lavori”, anche Cristina è molto preoccupata per il futuro dell’audiovisivo, anche se confessa di essere già al lavoro su un nuovo e attualissimo film, ispirato a “La Peste” di Camus ma ovviamente ambientato a Napoli. Lei che della propria napoletaneità ha fatto una bandiera, riscoprendola dopo anni di recitazione al fianco di alcuni dei più importanti registi italiani e non solo.
Manca all’appello giusto un film con Fellini, che già l’aveva scelta per un ruolo ne “La città delle donne” in tempi in cui la sua inesperienza non le ha però permesso di fare le scelte giuste. Oggi che di consapevolezza ne ha da vendere, tanto che si sente pronta a diventare una bisnonna rock, abbiamo intervistato Cristina Donadio.
L’Italia è nel pieno della “fase 2”, tu in che fase ti senti?
Mi sento come nel gioco dell’oca, nella fase meno uno. L’attore, come del resto il cantante, è fiato che diventa parola, che si fa emozione. Ciò che mi spaventa davvero – e non riguarda solo il mio mestiere – è la catena che lega tutto. Non ci sarà più godimento nel far nulla, dallo shopping alle cene, fino ovviamente all’andare a teatro e al cinema.
Per te che sei un vulcano, è stata dura fermarsi?
I primi giorni no, sono stata addirittura felice perché era tanto che non riuscivo a riposarmi un po’ e ho potuto far tornare a galla la mia pigrizia.
L’importante è non crogiolarcisi troppo.
Per il mestiere che faccio e per come lo vivo, non è un rischio: riuscire a leggere tanto, ascoltare musica o vedere film e serie, lo considero una formazione professionale.
Cosa ti sei guardata?
Ho finito l’ultima stagione de “La casa di carta”, anche perché sono innamorata di Berlino, lo trovo un personaggio meraviglioso e intrigante. Poi mi sono vista “Vis a Vis”, una serie sempre legata allo stesso gruppo di sceneggiatori. Venendo invece all’Italia, “I Diavoli” e “Zero Zero Zero”, nel quale ho ritrovato tutta la famiglia delle prime due stagioni di “Gomorra”.
Tante serie, ma pochi film?
Sì, ne ho visti meno. Sono andata a rivedere dei film che per me hanno significato molto, soprattutto quelli legati alla scuola tedesca, per esempio “Il matrimonio di Maria Braun” di Fassbinder. In questo periodo è emersa molto la mia anima deutcsh, mi sento come Nina Hagen. Ho dentro di me un cuore punk e underground e se potessi scegliere vorrei rivivere la Berlino degli anni ’30. O quella degli anni ’70, mi accontenterei comunque.
Cos’altro fa un’attrice quando è costretta a casa?
Ho passato parecchio tempo a fare pulizia nella mia testa. Ogni attore in una parte della sua scatola cranica ha una sorta di guardaroba, pieno di tutti i personaggi che ha interpretato e che restano lì, appesi come abiti. Personalmente ho trovato delle cose che giacevano lì da troppo tempo e andavano buttate, altre andavano solo rimesse in forma, altre ancora andavano aggiustate. E poi, mi sono andata a rileggere “La peste” di Camus: sembra scritto oggi. Sono felice che Francesco Patierno abbia deciso di farne un film, al quale parteciperò anche io e spero si potrà iniziare a girare già a luglio. Francesco ha trasposto il romanzo a Napoli e ha già filmato tutti gli esterni: delle immagini di una struggente malinconia.
Quanti film ci faranno su questa pandemia?
Credo tanti, ma la differenza la fa chi riuscirà a finirlo per primo e chi – ovviamente –racconterà qualcosa di particolarmente importante. Di immagini ne abbiamo già viste tante in questi mesi, penso a tutti i video che hanno mostrato ciò che la natura ci ha restituito. Io abito sul mare, a Posillipo. In questo periodo, ho ritrovato elementi che non ricordavo da quando ero bambina: i profumi del mare, le cozze che hanno un sapore dimenticato, i gabbiani che sono tornati a fare i gabbiani.
A proposito di mare, anche tuo figlio non è messo male, dato che vive ai Caraibi.
Chissà quando lo rivedrò, ora anche l’isola di Grenadine è chiusa. Lui per fortuna sta bene, però il Covid è arrivato pure lì, portato da Londra. Per un paio di settimane hanno fatto anche loro una chiusura totale dell’isola e adesso pian piano stanno tornando alla normalità, ma non so ancora quando ci potremo rivedere.
Immagino tu sia molto legata a tuo figlio: sei diventata mamma giovanissima.
Il giorno che ho compiuto 16 anni, è stato il regalo del mio compleanno. Ero totalmente inconsapevole, e non smetterò mai di ringraziare mia madre. Una domenica ero a casa ed ebbi un malore. Lei iniziò a scrutarmi, dall’alto dell’essere madre di sei figli e mi chiese se le dovevo dire qualcosa. La mattina dopo mi fece fare subito le analisi. Un giorno poi, tornata da scuola, mi chiese di andare a fare una passeggiata, ovviamente in macchina perché lei era una grande guidatrice. Mi disse subito che questo figlio sarebbe stato nostro e che io avrei dovuto assolutamente continuare la scuola e la mia vita. All’epoca avevo 15 anni e il papà ne aveva diciassette, eravamo davvero poco più che bambini, due semplici amici di scuola. Dopo aver fatto la maturità, mi sono comunque voluta sposare. Mio figlio nel frattempo aveva due anni ed era cresciuto in questa famiglia di sei figli, coi miei genitori, i miei nonni, i cugini, una casa sempre piena di gente. Quando poi siamo andati via io, lui e il papà, è stato un trauma. Io e mio figlio siamo cresciuti assieme, sono fermamente convinta che lui sia il mio migliore amico. Abbiamo condiviso tante cose, nel bene e nel male: ancora adesso se ho un problema la prima persona che chiamo è mio figlio e viceversa, nonostante lui oggi sia sposato e abbia a sua volta dei figli.
Quindi sei una giovanissima nonna.
E spero di diventare presto bisnonna, perché finalmente mi affideranno un bambino. Quando sono diventata mamma di mio figlio ero giovanissima e quindi a parte allattarlo, tra lo studio e tutto il resto, non ho potuto fare molto altro con lui. Quando poi sono nati i miei nipoti, mio figlio mi ha sempre detto: “Pensa a recitare”. Perciò, ho estorto ai miei nipoti, un giorno mentre giocavamo, che da bisnonna mi dovranno far fare il bagnetto ai loro figli, anche solo una volta per provare.
Continuerai a giocare a poker anche da bisnonna, visto che sei un’appassionata?
Assolutamente sì, vedo più credibile una bisnonna che gioca a poker, rispetto ad una nonna. La bisnonna ormai si può permettere tutto: berrò rhum ai Caraibi, giocando a poker. Sarò una bisnonna rock.
Di essere rock ne hai anche già dato dimostrazione, ad “Amici Celebrities”.
Maria De Filippi è una donna veramente straordinaria, con una chiarezza d’intenti bellissima. Mi ha proposto di fare un’esperienza che non avevo mai fatto prima, ovvero la cantante rock. E così mi sono ritrovata nella squadra dei Bianchi di “Amici Celebrities”, anche se non sono durata moltissimo, alla terza puntata ero già fuori. Ma salire su quel palcoscenico portando per mano Annie Lennox e Peppe Lanzetta, è già stato per me un successo.
Il personaggio di Scianel in Gomorra è innegabilmente quello che ti ha reso più nota al grande pubblico. Ti senti in qualche modo “schiava” di questa donna?
Per niente, ci convivo tranquillamente da anni. Ringrazio Stefano Sollima che è stato il primo a concepire questo personaggio e soprattutto ad avergli dato un nome così appropriato. Io poi ho avuto la libertà totale di prendere questa stoffa che mi avevano messo tra le mani. Una stoffa ruvida ma preziosa, che appena la toccavi un po’ rischiava di sgretolarsi, facendo sprofondare Scianel nello stereotipo. E lì ho aperto il mio guardaroba, pescando negli archetipi del male: un po’ di Clitemnestra, un po’ di Medea, un po’ di Macbeth, mi hanno permesso di far diventare Scianel il mio personaggio, che è alla fine tutt’altro che un cliché.
Tutt’altro, è un personaggio molto più profondo.
Più profondo e per certi versi attraversato da una sua personale follia. Però caratterizzato anche da una simpatia di fondo, che l’ha fatto amare alla gente. Ancora adesso, mi scrivono da tutte le parti del mondo e mi fermano continuamente, non solo a Napoli: è successo a Mykonos, piuttosto che ad Utrecht o in Marocco, c’è sempre qualcuno che riconosce Scianel.
Nel pieno delle riprese di “Gomorra”, mentre interpretavi Scianel, hai dovuto affrontare una tumore che inizialmente non hai scelto di non comunicare alla produzione. Secondo te oggi come oggi le lavoratrici sono tutelate in casi come questo?
Purtroppo molto spesso non lo sono, così come non lo sono le donne che rimangono incinta. Ma non è stato così nel mio caso. Ho capito che quando ci si trova di fronte ad un’avventura del genere, non cambia soltanto la persona che l’affronta, ma anche lo sguardo degli altri su quella persona. Come se improvvisamente si formasse attorno la cornice di quello malato, che deve stare attento e non fare determinate cose. Essendo Gomorra una produzione particolare, nella quale si girava spesso di notte, con temperature estreme e scene molto movimentate, ero sicura che qualcuno, su tutti Francesca Comencini, mi avrebbe chiesto di evitare certe cose. Come nella famosa scena della partita a poker, dove mi sarà accesa ottanta sigarette, oppure in molte altre situazioni. Ma io non volevo togliere nulla a Scianel. (Leggi la nostra intervista a Cristina Donadio di novembre 2020).
La malattia pensi abbia aggiunto un carattere di sofferenza al personaggio?
La particolarità di Scianèl sta in quello sguardo, dove c’è dentro anche la mia fragilità e diventa sicuramente un valore aggiunto imponderabile. Ciò che rende questo personaggio indimenticabile è stato forse proprio qualcosa di me che è filtrato da dentro. Non so neanche se chiamarla sofferenza, che per certi versi può essere addirittura riduttivo.
Quello di Scianel è un personaggio esteriormente molto diverso da quello che interpreti in “Vivi e lascia vivere”: secondo te hanno invece qualcosa in comune?
Diciamo che sono “The dark side of the moon”, perché entrambe appartengono al mondo della malavita organizzata. Questa signora elegante che interpreto in “Vivi e lascia vivere” è un personaggio che gioca sui dettagli, a differenza di Chanel che è un donna esplicita. Pur avendo la strategia di chi ascolta e non di chi parla, è un personaggio molto più misterioso, che mette una barriera fra sé e l’altro. Una sorta di empatia che crea un contrasto tra quello che dice e quello che è realmente: si percepisce che è attraversata da un mistero che fino alla fine non si riuscirà del tutto a comprendere.
E’ una donna molto diversa da te?
Assolutamente, è una donna molto più simile a Laura, a Scianel e a tutte quelle che – pur nella loro sgradevolezza – decidono di investire tutto su se stesse. Non vogliono dipendere da niente e da nessuno. Sanno di rischiare, consapevoli che la posta in gioco può essere anche molto pericolosa. Esprimono una forza che diventa un esempio che le altre donne percepiscono e che a volte le fa incuriosire. Molte donne vorrebbero essere così, pur sapendo che commettono molti errori.
In una recente intervista a Sandra Milo, abbiamo parlato a lungo di Fellini. Anche tu hai avuto la fortuna di conoscerlo e sei arrivata molto vicina a lavorarci assieme.
I primi dieci anni della sua carriera, un attore è totalmente pieno di sé e a volte questo suo narcisismo non gli permette di fare le scelte giuste. Indossa una sorta di abito dentro cui si crogiola, corteggiato da tutti ed è capitato anche a me. E’ andata così: ho avuto l’opportunità di andare a fare un provino con Fellini, direttamente con lui come si faceva all’epoca, allo Studio 5 di Cinecittà. Mi ricordo benissimo di lui: mi chiese di parlargli della mia vita e intanto disegnava. Alla fine mi dice: “Ecco, questo è il tuo personaggio, sarai il sogno ricorrente di Mastroianni”. Dopo aver firmato il contratto, iniziai ad andare a Cinecittà ogni giorno: pagata, truccata e vestita. Ogni giorno su quel set accadevano imprevisti e Fellini era sempre molto impegnato. Fatto sta, che dopo un mese non avevo ancora girato neanche una scena. E invece di ringraziare il cielo per l’opportunità di stare lì, ho buttato all’aria tutto. Un giorno arriva da me Aurelio Chiesa, un regista che stava per iniziare a girare e voleva darmi una parte. Io mi ero stufata di attendere e sono andata dalla mia agente e le ho detto: “Vado a fare questo film; Bim Bum Bam”. Perciò, con questa enorme prosopopea fatta di idiozia, me ne sono andata a fare “Bim Bum Bam” e Fellini tagliò dal film il mio personaggio.