È successo di nuovo, la scorsa settimana a Firenze, una ragazzina di tredici anni è stata aggredita da sette coetanei, che l’hanno accerchiata e picchiata, il tutto ripreso dagli smartphone, per poi postare il video sui social. La vittima è stata portata in ospedale e dimessa con una settimana di prognosi, ma le conseguenze a livello psicologico sono tali e tante, che adesso è chiusa in casa e ha paura di tornare a scuola. I responsabili del pestaggio sono tutti giovanissimi, hanno tra i tredici e i quattordici anni, e sono stati identificati proprio grazie al filmato pubblicato su Instagram, e denunciati dai genitori della ragazzina, perché questa non era la prima volta, a dicembre era stata picchiata dalla stessa bulla, un po’ più grande di lei, solo che in quell’occasione non erano andati dai carabinieri, sperando fosse un episodio sporadico.
Sono 3 minuti e 26 secondi agghiaccianti di video, quello condiviso, dove si vede il branco accerchiare la vittima e picchiarla, in sette contro uno, su whatsapp se lo sono girato in una chat insieme a insulti di ogni tipo, pensando di rimanere impuniti, ma questa volta qualcosa è andato storto e le immagini sono uscite dai gruppi privati, diventando, insieme alle percosse documentate dal referto medico, un atto d’accusa più potente dell’omertà che spesso coinvolge, non solo chi commette questi reati, perché di reati punibili dal codice penale si tratta, ma anche chi li subisce, e resta in silenzio per vergogna, e di chi vede ma non parla per paura.
È una lista infinita quella dei casi di cyberbullismo, che purtroppo a volte sfocia nel suicidio della vittima, nel gennaio 2013 Carolina Picchio si toglie la vita a 14 anni, si butta dal terzo piano della sua abitazione perché dei ragazzi fra i 13 e i 15 anni a una festa la fanno ubriacare, la molestano e filmano. Michele Ruffino di anni ne aveva 17 quando si lancia da un ponte, aveva anche scritto una lettera manifestando le sue intenzioni, ma fu intercettata da alcuni suoi coetanei, che decisero di non divulgarla, impedendo così, di fatto, al ragazzo di salvarsi. Andrea soprannominato “il ragazzo dai pantaloni rosa” invece aveva 15 anni quando decide di impiccarsi, non ne poteva più dei continui attacchi omofobi e delle umiliazioni, e decide di farla finita.
Sapete perché mi ricordo di tutti questi casi? Perché mia figlia poteva essere uno di questi, se solo non avessi deciso per lei un finale diverso, se non le avessi dato gli strumenti per difendersi e per difenderci, se solo non fossi stata in grado di leggere alcuni segnali, e soprattutto grazie al fatto che lei ha sempre raccontato tutto quello che le accadeva in classe. Aveva solo 12 anni e frequentava la seconda media quando fu presa di mira da alcune bulle, compagne di scuola, lei ancora bambina, loro già con la matita nera sugli occhi, lei normopeso, loro già costantemente a dieta, ossessionate dal conteggio delle calorie.
È stato un anno difficile, iniziato con le umiliazioni negli spogliatoi durante l’ora di educazione fisica, i nomignoli a screditare la sua forma fisica, l’isolamento, e l’allontanamento dal suo amico del cuore, l’epilogo più tremendo di tutta quella situazione. È stato devastante sentirla piangere fino a farsi mancare il respiro, raccoglierla mentre cadeva, supportarla quando veniva minacciata e infine denunciare sui social quello che stava accadendo, chiedendo le scuse dei bulli, e il controllo da parte dei genitori. Donatella per un anno non ha più dormito da sola, voleva stare solo con me, solo con l’aiuto di uno psicologo è riuscita a superare quel trauma. Sapete come è finita? Che io e la mamma dell’altra ragazzina, che non lasciò mai sola mia figlia, fummo isolate dal resto dei genitori, perché avevamo avuto il coraggio di prendere posizione, di denunciare agli insegnanti la situazione di disagio, perché secondo loro, erano tutte ragazzate, anche quando su messenger le arrivò questo messaggio: “Abbiamo un sogno nel cuore che ti venga un malore…Dona ti hanno tolto dal gruppo dato che hai “molti amici”… E se qualcuno ti dice qualcosa ti nascondi dietro tua mamma o al nonnetto…Quindi dato che io e … ci siamo rotti i coglioni di te… appena ti vediamo non esiteremo a renderti la vita un inferno e immagina che quello che ti abbiamo detto fino a ora siano complimenti …e dopo non ci sarà ne la mamma ne il nonno a difenderti …sei finita sottospecie di struzzo ( e mi dispiace offendere gli struzzi)”.
Il dolore per quelle parole è tatuato nei miei ricordi, la scelta fu quella di toglierla da quella scuola, era estate, e farle terminare le medie a Dolo, ci ricongiungemmo con suo padre che già abitava in Veneto, mentre noi stavamo in Romagna. Non è stato facile prendere quella decisione, non so nemmeno se sia stata la decisione più giusta, ma in quel momento troppa era la paura di perderla, troppa era la paura che qualcuno potesse davvero farle del male fisico, oltre quello psicologico, che mi è sembrata l’unica.
Sono passati nove anni da quel giorno, e le cose per i ragazzi non sono cambiate, il bullismo anzi si è evoluto, è diventato cyber, si sono aggiunte le chat segrete, quelle che cancellano tutto dopo 24 ore, i social che non permettono gli screenshot, ma gli adolescenti sono rimasti gli stessi.
Anime fragili che hanno bisogno di amore, cura e rispetto, da parte di tutti, anche da parte dei genitori dei bulli, che non devono far finta di non vedere, che non devono girarsi dall’altra parte, che non devono etichettare come ragazzate le situazioni che provocano sofferenza, anche se a soffrire non sono i loro figli. Perché il dovere di un genitore è anche quello di far assumere alla propria progenie le responsabilità di un’azione, specialmente di quelle sbagliate, perché è solo in questo modo che si cresce e si diventa grandi, anche e soprattutto con i no, che oggi faranno male, ma che domani renderanno questi ragazzi degli individui migliori.
Perché di bullismo si muore ancora.