Narges Mohammadi, le parole dal carcere dal Nobel per la pace: “La prigione non fermerà la mia voce”

La lettera dal carcere di Narges Mohammadi, che continua a lottare per i diritti delle donne

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Maria Francesca Moro

Giornalista e Lifestyle Editor

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Per quanto l’oppressore possa essere forte, violento, potente, ci sono voci che non possono essere messe a tacere. Violenze, soprusi, anni di ricatti e prigionia non hanno fermato la voglia di lottare di Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, paladina dei diritti delle donne in Iran. A poco più di una settimana di distanza dalla consegna del premio, Mohammadi è riuscita a inviare un messaggio di speranza al mondo, pubblicato sulle pagine del Corriere della Sera.

La lotta per la libertà di Narges Mohammadi

Non le hanno permesso di recarsi a Oslo per ritirare il premio Nobel per la pace che le spettava, al suo posto il marito e i due figli, i giovanissimi Kiana e Ali Rahmani: la famiglia che non vede da anni. Ma ciò non è bastato per zittire Narges Mohammadi. Nonostante comunicare con le esterno “abbia un prezzo”, l’attivista ha scelto di commentare il prestigioso riconoscimento e ciò che questo simboleggia per le donne iranian: “Per me il Nobel è una dichiarazione di sostegno globale al movimento progressista d’Iran. È per l’Iran che si ribella”.

Continua a ribellarsi anche lei, oggi con uno sciopero della fame, iniziato contro l’imposizione del velo impostole dai carcerieri: “L’hijab obbligatorio è uno strumento per sottometterci e dominarci. È uno dei fondamenti della teocrazia autoritaria e io lo combatto con tutta me stessa. Non indossare il velo nemmeno per una visita medica necessaria è la mia protesta e la mia forma di resistenza contro l’oppressore: non farò mai un passo indietro”.

È il modo di rendere giustizia a Mahsa-Jina Amini, di Armita Garawand e tutte le giovani donne che hanno perso la vita a causa di una ciocca di capelli troppo in vista.

Otto anni senza vedere i figli

Al Corriere Narges Mohammadi ha svelato anche il suo lato più intimo, mostrando – sotto la marmorea corazza di coraggio e passione – il volto di una madre ferita, strappata ai suoi figli ancora bambini: “Stare lontano da un figlio è il dolore più atroce che si possa immaginare. Il primo arresto è avvenuto quando Ali e Kiana avevano 3 anni e 5 mesi. Sono stata in isolamento, in un reparto di massima sicurezza. Non c’erano telefonate, né visite, non sapevo nulla di come stavano i miei bambini, ero tormentata”.

“Ogni volta che penso a quel periodo, non posso credere di essere sopravvissuta a così tanta pena. – ricorda Mohammadi – Poi è andata anche peggio. La seconda volta che mi hanno arrestata e messa in isolamento, Kiana e Ali avevano 5 anni. In cella non facevo che pensare alla solitudine, all’impotenza dei miei figli, così piccoli, così soli: era insopportabile”.

Un dolore inimmaginabile, che l’attivista condannata a 31 anni di prigionia e 154 frustate, ha trasformato in forza: “Mi sono salvata solo grazie alla mia fede nella libertà per ogni essere umano. Così la sofferenza non diminuisce ma trova un senso. Non posso lamentarmi”. Non si lamenta, al contrario, agisce: “Continuiamo la lotta da qui con scioperi della fame, sit-in, opponendoci al velo. Le mura della prigione non impediranno alla mia voce di raggiungere il mondo”.