In Italia, il divario di genere nel mondo del lavoro continua a essere una realtà persistente. Nonostante le donne rappresentino una quota significativa della forza lavoro, con 9,5 milioni impiegate contro i 13 milioni di uomini, la loro situazione occupazionale è caratterizzata da sottopagamento e precarietà, specialmente in settori non strategici. Questo squilibrio non è frutto di scelte libere, ma è piuttosto il risultato di condizioni sociali e culturali discriminatorie.
A ciò si aggiunge il fenomeno del workaholism, ovvero la dipendenza dal lavoro. Recenti studi indicano che le donne sono particolarmente vulnerabili a questa condizione, con conseguenze più gravi sulla loro salute mentale e fisica.
Il termine “maniaco del lavoro” descrive persone che non riescono a distaccarsi dal lavoro, trascorrendo ore eccessive in ufficio e ossessionandosi per le proprie prestazioni. Questo comportamento è spesso utilizzato come via di fuga dai problemi personali, ma a lungo termine può danneggiare relazioni e salute. Curiosamente, il workaholism è prevalente tra le donne.
La dipendenza da lavoro è reale e le donne sono più inclini ad esserlo
Un recente studio pubblicato sul Journal of Occupational Health Psychology getta luce sulla psicologia dei cosiddetti workaholics, evidenziando come la loro condizione mentale sia generalmente peggiore rispetto a quella di altre persone, anche durante l’attività lavorativa che dovrebbe appassionarli. La ricerca è stata condotta da Cristian Balducci, professore presso il Dipartimento di Studi sulla Qualità della Vita dell’Università di Bologna, in collaborazione con il dottor Luca Menghini dell’Università di Trento e la Professoressa Paola Spagnoli dell’Università di Campania ‘Luigi Vanvitelli’.
Il fenomeno del workaholism, secondo gli esperti, è paragonabile ad altre dipendenze, come il gioco d’azzardo o l’alcolismo, e può portare a gravi conseguenze come il burnout e problemi cardiovascolari a causa dell’alto livello di stress quotidiano che comporta. Nonostante molti workaholics occupino posizioni di responsabilità, il loro umore negativo può influenzare negativamente anche i colleghi.
I ricercatori hanno analizzato il comportamento di 139 lavoratori a tempo pieno, impiegati prevalentemente in attività di back-office, utilizzando una tecnica chiamata “metodo di campionamento dell’esperienza”. Questo metodo ha permesso di raccogliere dati tramite un’applicazione installata sui telefoni dei partecipanti, che inviava questionari brevi circa ogni 90 minuti, dalle 9:00 alle 18:00, per tre giorni lavorativi.
I risultati hanno mostrato che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i workaholics non provano maggiore piacere nel loro lavoro rispetto ad altri lavoratori. Anzi, tendono a mantenere un umore costantemente peggiore durante il giorno, indipendentemente dalle fluttuazioni del carico di lavoro. Questa ridotta reattività agli stimoli esterni suggerisce un appiattimento emotivo, tipico anche di altre forme di dipendenza.
Interessante è il dato emerso sulle differenze di genere: le donne workaholics mostrano una relazione più marcata tra la dipendenza dal lavoro e il cattivo umore, suggerendo una maggiore vulnerabilità al fenomeno, probabilmente a causa di un conflitto di ruolo più acuto, dovuto alle aspettative di genere ancora fortemente radicate nella società.
Perché le donne sono più a rischio?
Ricerche specifiche hanno rivelato che le donne che lavorano più di 45 ore settimanali sono più esposte al rischio di sviluppare il diabete rispetto a quelle che lavorano meno di 40 ore, e soffrono inoltre di livelli di stress, ansia e depressione significativamente superiori rispetto agli uomini. Questi problemi sono esacerbati da fattori come il sessismo sul posto di lavoro e il carico delle responsabilità familiari.
Inoltre, le donne spesso sentono la pressione di dover lavorare più duramente per essere considerate alla pari dei colleghi maschi, combattendo contro una retribuzione ineguale e la mancanza di supporto e riconoscimento. Questo lascia molte lavoratrici sentendosi svuotate e sopraffatte, cercando di bilanciare in modo impeccabile le richieste professionali con la vita familiare.
Come gestire il workaholism
Identificare il momento giusto per fare un passo indietro dal lavoro può essere difficile, ma con supporto e guida adeguati, è possibile mitigare l’impatto negativo dello stress lavorativo. Secondo gli esperti, uno dei primi passi consiste nell’esaminare obiettivamente le proprie necessità e obiettivi di vita per scoprire aree in cui il lavoro può essere ridimensionato a favore di un equilibrio più salutare.
Prendersi del tempo per sé stessi, anche solo un’ora al giorno per riflettere, meditare, leggere o andare in palestra, può fare una grande differenza.
La comunicazione è fondamentale: parlare con altri che vivono situazioni simili può rivelare che non si è soli in questa lotta. Il recupero dal workaholism è possibile, e non si tratta di una condizione senza via d’uscita. Se si sospetta di soffrire di questa dipendenza, è consigliabile consultare un terapista per fare il primo passo verso il recupero.
Disparità di genere e lavoro in Italia
In Italia, il tema del lavoro femminile rimane una questione complicata e spesso poco accettata. Secondo un recente dossier della Camera dei deputati, il tasso di occupazione delle donne italiane tra i 20 e i 64 anni si attesta solo al 55%, ben al di sotto della media europea del 69%. Questa discrepanza sottolinea una realtà problematica: le donne italiane affrontano notevoli ostacoli nel mercato del lavoro, aggravati da una carenza di servizi di welfare, soprattutto in alcune aree del paese.
Il rapporto Istat SDGs 2023 conferma l’impatto devastante della maternità sulla carriera delle donne, con il 52% delle madri che lascia il lavoro per esigenze di conciliazione. Tuttavia, un’alta formazione appare come un fattore protettivo, mostrando minori disparità occupazionali tra madri e non madri.
Secondo dati forniti da Confcommercio e dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, i posti di lavoro crescono il doppio per gli uomini rispetto alle donne, posizionando l’Italia agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile. Il 2022 ha visto un aumento del 17,1% delle dimissioni complessive rispetto al 2021, con quasi il 73% di queste rappresentate da donne, spesso neomamme, che lottano per bilanciare le esigenze familiari con le carriere.
Il problema del gender-pay gap
Sul fronte del gender pay gap, la situazione è altrettanto grigia. Il divario retributivo orario in Italia è del 5,5%, ma il gap annuale sale al 43%, significativamente più alto della media europea. Queste differenze sono ancora più accentuate nel settore privato e tra i liberi professionisti.
In aggiunta ai problemi salariali, c’è la questione del lavoro di cura, spesso svolto da donne e particolarmente da donne migranti, che rimane sottovalutato e scarsamente retribuito. Circa l’86% dei lavoratori domestici in Italia sono donne, molte delle quali straniere.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) si propone di affrontare alcune di queste questioni con misure specifiche, come la promozione di asili nido e il sostegno all’occupazione femminile. Nonostante ciò, la realizzazione pratica di queste iniziative stenta a decollare, con molti fondi ancora non assegnati e una generale mancanza di coerenza nelle politiche di genere.
Una crisi di valori
In Italia, il persistente divario di genere nel mondo del lavoro è sintomatico di una crisi molto più ampia, che va oltre le semplici statistiche occupazionali. La situazione attuale rappresenta una vera e propria crisi di valori, radicata profondamente nelle norme sociali e nelle aspettative culturali che hanno storicamente limitato e continuano a limitare le opportunità delle donne in molti aspetti della vita.
Le norme sociali, spesso influenzate da un retaggio patriarcale, tendono a perpetuare una divisione rigida dei ruoli di genere. Questo schema tradizionale relega le donne a ruoli di cura, sia a livello familiare che professionale, e limita la loro partecipazione in campi considerati più strategici o remunerativi, tipicamente dominati dagli uomini. Questa segregazione occupazionale non solo marginalizza le donne economicamente, ma le priva anche di opportunità di sviluppo personale e professionale.
Inoltre, la persistenza di tali norme così radicate ostacola l’evoluzione della società italiana verso modelli più equi e inclusivi. Le aspettative culturali che vedono la donna principalmente come madre e curatrice impediscono una vera parità di partecipazione nel mondo del lavoro, specialmente in posizioni di alta responsabilità. Le donne sono spesso viste come meno affidabili o meno impegnate professionalmente a causa di possibili impegni familiari, una percezione che non solo è ingiusta ma anche dannosa.