Mattia Insolia, catanese classe 1995, è riuscito con soli due libri, Gli affamati e Cieli in fiamme, a conquistare il pubblico, grazie alla sua scrittura diretta, che non sconta niente, e alla capacità di condensare nelle sue pagine rabbia, delusione, sconforto e frustrazione della sua generazione. Ragazzi e ragazze pieni di furore, con un “mostro” che abita dentro loro e che non riescono a governare: la rabbia.
Abbiamo tra i 25 e i 30 anni e siamo incazzati, ma anche convinti di non avere una voce. È una generazione paralizzata, la nostra, nata nel segno della crisi (economica, ambientale, politica lavorativa) e destinata a non avere un futuro (dal monologo di Mattia Insolia a Le Iene)
A chi è affamato, che il mondo l’ha lasciato senza niente. Venite fuori tutti, vi prego, e distruggete i falsi idoli, razziate le grandi città, respirate la nuova aria. Infine, appagate i vostri desideri. A chi è affamato, che il mondo l’ha lasciato senza niente, adesso io dico: saziatevi (Da Gli Affamati)
Mattia ci ha parlato dei suoi due libri, del terzo in arrivo, dello scrittore che ha segnato la svolta nella sua vita e soprattutto ci ha spiegato perché i suoi libri siano pieni di violenza, ma anche di tantissimo amore.
Nei tuoi libri protagonista una generazione affamata di vita e tanto arrabbiata, che sembra non trovare vie d’uscita. Specchio di quella attuale o una proiezione di come ti sentivi a quella età?
Sono sempre stato timoroso verso le generalizzazioni, ma mi sono reso conto che c’è una età in cui tutti siamo arrabbiati: quella zona grigia tra l’adolescenza e l’età adulta, quando non si è più bambini ma nemmeno “grandi”. È un momento di forte confusione, in cui riuscire a trovare delle coordinate di vita è complesso, ma è anche l’unica cosa che si possa e si debba fare. C’è una rabbia che appartiene a quella fascia d’età: Antonio e Paolo de Gli Affamati e Teresa e Niccolò di Cieli in fiamme hanno la stessa età. Inoltre penso che sulla nostra generazione, quella dei Millennial ma anche delle generazione Z, siano state operate delle grandi frodi. E rendersi conto che vivere risulta tanto complicato per dei problemi strutturali non può che far nascere tanta rabbia.
Nei tuoi libri le donne qualche volta trovano riscatto, sebbene a caro prezzo; gli uomini non trovano via d’uscita, non riescono a fuggire dalla propria infelicità. Perché?
In realtà una scelta consapevole non c’è. Elena Ferrante in un saggio parla della “creature che vive dentro ad ogni scrittore ed ogni scrittrice”. Non so quindi se questa scelta, che non è stata fatta consapevolmente da parte mia, magari non sia stata operata dalla “creatura”. Però mi rendo conto che effettivamente i miei personaggi maschili sono quelli che più si annientano. Ma non saprei dirti con quanta consapevolezza abbia fatto questa scelta.
Entrambi i libri cominciano con una scena di morte. È un caso o voluto?
Ecco, questo è voluto: anche il prossimo libro comincia con una scena che potrebbe avere a che fare con una o più morti. L’ho fatto consapevolmente e le ragioni sono due: la prima è perché, come diceva Čechov, “se c’è una pistola quella pistola prima o poi sparerà”. Mi piace dare tensione, dal punto di vista narrativo: c’è una pistola, e questa pistola potrebbe sparare e colpire oppure no. Gli affamati si apre con uno dei due fratelli che sta morendo, Cieli in fiamme con un pistola puntata alla tempia e il dubbio se quella pistola alla fine sparerà o meno. La seconda ragione è che penso che cominciare dalla fine sia uno dei sistemi migliori per sbrogliare le matasse rappresentate dai romanzi. Parto sempre dalla fine e poi torno indietro.
Anche il sesso, più che qualcosa di positivo, è spesso violento e rabbioso. Perché?
Anche questo è voluto e finalmente posso dire dopo due libri penso di essermi finalmente calmato! Nasce tutto dalla mia, di esperienza, non tanto come autore ma come essere umano. Mi sono sviluppato molto tardi, sia fisicamente che psicologicamente: mentre tutti i miei compagni erano già alti 1,80 e si “imboscavano” con le ragazzine, io ancora portavo i Pokemon a scuola. Tutte le scoperte che loro hanno fatto ad una certa età, per me sono arrivate con un certo ritardo. E fino a qualche anno fa ci soffrivo molto. Anche il sesso è arrivato tardi, e quando è arrivato c’è stata una sorta di rivendicazione, passata attraverso il mio corpo. C’è quindi sicuramente una rabbia, nel sesso che descrivo, ma che ha più a che fare con il tentativo di volersi imporre come individuo.
Il paese di Camporotondo ritorna in entrambi i libri: dove si trova e cosa rappresenta?
Camporotondo, che nella realtà non esiste, rappresenta un ipotetico sud. Non ho mai in mente di scrivere delle storie con una collocazione fisica reale, mi piace costruire luoghi e città. Partiamo dal nome Camporotondo: volevo dare l’idea di un posto che fosse sempre uguale a se stesso, circolare, che non avesse un inizio, una fine e non confinasse con nulla. Un campo, una piazza aperta: il nome l’ho scelto per questo. Volevo poi raccontare un sud che ho vissuto, che ho abitato: Camporotondo ricorda un paesino in provincia di Siracusa dove abitavano i miei nonni e in cui ho trascorso moltissime estati, da ragazzino, e che mi è rimasto sottopelle. Stavo lì un mese, mentre i miei genitori lavoravano. Vedevo questo paesino piccolo, sempre uguale a se stesso, con poche vie, tutte in pietra bianca, tanti alberi di ulivi, la terra secca. Queste immagini mi sono rimaste, anche perché li sono successe tante cose, anche i primi momenti in cui ho toccato con mano la violenza. E la rabbia.
C’è uno scrittore al quale ti ispiri, che nella tua vita ha segnato punto di svolta?
Tanti, ma se devo pensare ad un punto di svolta, e la definizione mi piace molto, penso a Niccolò Ammaniti. A parer mio, il più grande scrittore italiano contemporaneo. Quando dopo i corsi di scrittura all’università ho pensato di voler scrivere qualcosa, ho letto per tre volte Come Dio comanda, libro che mi ha traghettato da Antonio e Paolo (personaggi molto “ammanitiani”, ndr).
Forse perché in quel libro il padre, Rino, insegna al figlio Cristiano “l’amore attraverso la violenza”?
Esatto, e questo succede perché Rino non conosce altro, proprio Antonio e Paolo de Gli affamati. Seneca diceva che “quando operiamo per il male è solo perché non ci hanno insegnato il bene”. E se non ce l’hanno insegnato, andare verso il male diventa quasi istintivo. Ma nonostante tutto c’è sempre anche un istinto all’amore, che speravo venisse fuori ne Gli Affamati, perché è quello che ho colto, e amato, in Come Dio comanda.
L’amore che prova Paolo per suo fratello Antonio, ne Gli affamati?
Sì, Paolo cerca di proteggere Antonio perché pensa che sia la parte più pura, migliore, di loro due. Paolo si porta dentro un senso di colpa tale da pensare l’unica parte da salvare della propria famiglia sia suo fratello. E si adopera sempre affinché Antonio si l’unica cosa che possa salvarsi in quella casa.
Vedresti bene uno dei tuoi libri al cinema? Se sì, quale regista vorresti lo dirigesse?
Sinceramente vedo più Gli affamati al cinema, forse perché la concentrazione temporale è maggiore e si svolge tutto in un unico luogo, mentre in Cieli in fiamme ci sono piani temporali diversi. E come regista ti direi proprio colui che ha diretto tanti libri di Ammaniti: Gabriele Salvatores.
E come attori?
Leggevo tempo in un saggio che diceva che quando noi scriviamo siamo perfettamente capaci di immaginare un ambiente, un’azione, ma non le facce, i volti, dei nostri personaggi. Ed è vero: nonostante io abbia anche descritto i miei personaggi, in realtà fisicamente non so come siano. Quindi non saprei.
Sei all’opera su un nuovo romanzo?
Sto scrivendo e sono in una fase abbastanza avanzata. Mi piace molto quello che sta venendo fuori, quindi è molto brava “la creatura”…
Un consiglio per avvicinare le nuove generazioni alla lettura ?
Ci sono due consigli che darei: il primo, molto pratico, è di mettere loro in mano delle graphic novel. Ce ne sono molte che sono letteratura pura forse a loro sembrerebbe “uno sgarbo a metà”. Per il secondo, riporto una cosa che disse Michela Murgia proprio ad un giornalista che le chiedeva un consiglio per avvicinare i ragazzi alla lettura: “Proibiteglielo, ditegli che i libri non li devono toccare, che non sono cose per loro”. Quando siamo adolescenti viviamo una sfida continua verso l’autorità costituita perché la nostra formazione avviene per opposizione. Soprattutto nei confronti dei genitori. Parlare quindi dei libri come se fossero cose per adulti, renderli cose da grandi, fari diventare interessanti perché “inaccessibili” Cosa c’è di più affascinante?